Commento

Tripoli bel suol d’amore

L'imbarazzante bilancio della conferenza sulla Libia di Palermo sancisce l’irrilevanza a cui si è condannata Roma

14 novembre 2018
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Che cosa è cambiato perché l’Italia, dopo il baciamano di Silvio Berlusconi a Muhammar Gheddafi e il successivo allineamento alle potenze che fecero fuori il Colonnello e gettarono il suo Paese all’inferno, potesse ritenersi titolata a indire una conferenza sulla Libia, con ambizioni da pacificatore? Niente, se non in peggio.


E infatti l’imbarazzante bilancio del giorno e mezzo di incontri a Palermo sancisce l’irrilevanza a cui si è condannata Roma. Alla quale non bastano il retaggio coloniale e il conseguente “dovere morale” di investirsi della questione, né l’urgenza – più retorica che fattuale – di fermare il flusso di migranti verso le sue coste, per elevarsi a protagonista diplomatico capace di orientare o almeno favorire una soluzione a una crisi la cui gravissima complessità condiziona le sorti di un’area ben più estesa del Nord Africa.

Il povero Giuseppe Conte ha sì guadagnato le lodi dell’inviato dell’Onu per la Libia Ghassam Salamè (“Palermo è stata una pietra miliare”) e pareggiato i conti con Emmanuel Macron, ottenendo anch’egli la sua bella stretta di mano tra il premier, cosiddetto, al Sarraj e il raìs di Bengasi Haftar a beneficio dei fotografi. Ma di qui a spacciare per risolutiva una messa in scena trascurata o abbandonata anzitempo dagli attori che potevano darle sostanza, ce ne passa. È vero: tra le voci in attivo del bilancio c’è la sibillina dichiarazione di Haftar, secondo il quale “non si cambia cavallo mentre si attraversa il fiume”, interpretata come una garanzia concessa a Sarraj di poter restare al suo posto sino alle prossime elezioni. Se non che di garanzie simili Haftar ne ha concesse ad ogni plenilunio, e che le “sue” garanzie non sono quelle delle milizie che un po’ gli rispondono un po’ fanno di testa propria.

Chi risponderà, del resto, all’Italia delle proprie scelte? Non la Francia, rivale nella sostanza, e perlomeno disamorata dopo mesi di cura-Salvini. Figuriamoci Russia, Arabia Saudita, Egitto (presente a Palermo con il presidente al Sisi, con la garanzia che non gli si chiedesse conto di un tale Giulio Regeni), Turchia il cui rappresentante, ispirato dai gran gesti del suo presidente, ha lasciato in anticipo la compagnia dicendosi “deluso”. Non quegli Stati Uniti il cui presidente ha incoraggiato Conte a mettersi d’impegno, purché non sgarrasse. Parliamo cioè del presidente del Consiglio di un Paese che è stato “esentato” dal divieto di fare commerci con l’Iran come da sanzioni appena reintrodotte, purché si prenda – e infatti è così – gli F35 e i sistemi di trasmissione satellitare per l’esercito Usa, che i 5Stelle avevano giurato di non consentire, e svolga una adeguata funzione di guastatore in seno alle istituzioni europee. Cose che neanche Andreotti.

Né, infine, si riterranno impegnati i libici a cui Roma ha versato palanche perché facciano il lavoro sporco al suo posto, e che le utilizzano per nazionalizzare il business dei migranti (non soccorsi ma ripresi e inviati in autentici campi di concentramento) e che hanno saputo blandire il Salvini arrivato con la faccia cattiva e tornato ammaestrato come un cammello. Gli Stati, in certe situazioni, non hanno amici, ma peso specifico. Lo imparerà questa Italia? e con quale fatica?

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