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E che ci sia solo da brindare

C’è ben più di un semplice (e a questo punto anche sgualcito) maglione verde chiaro nel bagaglio di Geo Mantegazza

13 novembre 2018
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C’è ben più di un semplice (e a questo punto anche sgualcito) maglione verde chiaro nel bagaglio di Geo Mantegazza. Un cognome che negli ultimi quarant’anni è diventato una sorta di brand. Non solo perché ancor oggi c’è sua figlia a portare avanti la lunghissima tradizione di famiglia («è stato lui a trasmettermi la malattia dell’hockey», racconta Vicky), bensì perché quando prese in mano le redini di un club all’epoca confinato in B – era il 1978 – l’ingegnere nato a Lugano lunedì 12 novembre del 1928 lo fece investendo tempo e denaro in un progetto che segnò una svolta epocale nel mondo dell’hockey nostrano.

Nel cui vocabolario, a quel tempo, il termine ‘professionismo’ semplicemente non esisteva. La rivoluzione iniziò a concretizzarsi all’inizio degli anni Ottanta, quando sulle rive del Ceresio arrivò tale John Slettvoll, trentanovenne tecnico svedese semisconosciuto. La perfetta simbiosi tra due personalità carismatiche e al tempo stesso ostinate portò in Ticino addirittura quattro titoli in cinque stagioni. In quella che passerà alla storia come l’epoca del Grande Lugano, arrivata appena tre anni dopo la promozione.

Neanche a farlo apposta, lo stesso Slet­tvoll – guadagnatosi con il passare dei mesi l’appellativo di Mago di Umea – proprio dopodomani festeggerà il suo, di compleanno. E sarà il settantaquattresimo della serie, nel medesimo giorno in cui la Cornèr Arena celebrerà simbolicamente i novant’anni di Geo, il Presidentissimo.

A dire il vero, però, in queste ore più che a quella cerimonia – ma pure più che al derby di stasera alla Valascia – lo sguardo degli addetti ai lavori è rivolto all’assemblea dei delegati dei club di A, che domani dovranno decidere se approvare un cambiamento che potrebbe essere a sua volta epocale, qualora effettivamente passasse. Infatti, mai prima d’ora qualcuno avrebbe potuto ipotizzare il passaggio addirittura a sei stranieri per squadra, cifra ferma a quota quattro dal 2007, dopo ben tre riforme nel giro di solo un paio di stagioni agli inizi del Duemila. Diciamolo subito: l’impressione è che tale riforma sia destinata a naufragare, anche perché – dicono i soliti beninformati – i club convintamente favorevoli sono ‘appena’ quattro (oltre al Berna, che l’ha proposta, si tratterebbe di Servette, Losanna e Davos), e anche in caso di perfetta parita – e cioè 6 società favorevoli e altrettante contrarie – la misura non passerebbe.

Tuttavia, un conto è sbandierare ai quattro venti come si intende muoversi, un altro è votare. Di sicuro, per restare al Ticino, Ambrì e Lugano quella riforma la bocceranno. Il che, oltre ad essere lodevole è pure ampiamente comprensibile, visto quanto le due società di casa nostra investono in risorse (ma non solo) nel progetto Ticino Rockets. E qualora domani si dovesse davvero svoltare, sarebbero proprio i giovani a pagare di tasca loro l’aumento del numero di giocatori d’importazione, siccome dall’oggi al domani svanirebbero (almeno) due posti nel contingente di ciascuna delle dodici squadre di A. In altre parole, sparirebbe una squadra intera. E ci sarebbe di che meditare.

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