Commento

Nobel, se alla storia passano le dichiarazioni

Capire perché uno si è preso il premio non è sempre facile. Ma le frasi celebri restano. Romer: ‘Una crisi è una cosa che non si deve soprattutto sprecare’

Keystone
12 ottobre 2018
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Capire perché uno si è preso il Nobel non è sempre facile. Si dà per scontato che deve aver dato un grande apporto e se lo è meritato. Alle volte rimangono più impresse dichiarazioni del premiato, apparentemente marginali. Chi si ricorda, ad esempio, quale è stato l’apporto dello svedese Gunnar Myrdal, premio Nobel per l’economia? Ci si ricorda però di una sua paradossale dichiarazione: “Ho cercato tutta la vita di essere un economista, il buon senso me l’ha impedito”. Voleva dire che tra la cosiddetta scienza economica e la realtà quotidiana correva il mare e ci voleva spesso il deprecato buon senso per riuscire a navigare. Buon senso che per Myrdal, grande studioso della povertà, voleva dire umanità.

Un discorso analogo, di grande attualità, si può fare per il neopremiato, Paul Romer, occupatosi in modo particolare dell’importanza della circolazione di idee innovatrici (e non solo delle tecnologie) nell’evoluzione dei cicli economici. Feroce e famosa è stata la sua critica nei confronti di chi pretendeva di “far ruotare” l’economia attorno a modelli matematici senza nessun rapporto con la realtà (diceva: “Simili ai riti religiosi di un clero tutto dedito al culto dell’infallibilità della teoria economica neoclassica”).

Ci sono due sue dichiarazioni, antecedenti al premio, che meritano attenzione perché parlano anche in casa nostra. In un articolo scrive: “Ho osservato più di tre decenni di regressione intellettuale”. E lo dimostra, anche con argomenti tecnici. La sostanza della critica è triplice. C’è una sorta di casta di economisti dominanti che funziona come un gruppo chiuso, monolitico, “con un forte senso delle frontiere tra loro e gli altri”, “un disprezzo e un disinteresse per le idee, le opinioni e i lavori di chi non fa parte del gruppo”. C’è un senso tale di difesa del gruppo dominante ch’esso si sente più impegnato a imporre sé stesso che ad esaminare la realtà economica. C’è un conformismo che induce persino a negare i fatti se rimettono in discussione le proprie opinioni.

Critiche dure, utili anche in casa nostra quando si constata che tutto ciò che proviene da un’altra sponda o da un’opposizione d’altra economia più umana o da economisti non omologati viene scartato a priori come “irreale” e criticato come disfattista. L’altra più recente dichiarazione di Romer può sembrare quasi banale per un premio Nobel, ma è densa di significato, commenta un’epoca, è la conclusione logica della constatazione precedente: “Una crisi è una cosa che non si deve soprattutto sprecare”. Era il suo lapidario commento a dieci anni dalla crisi 2007-2008. Voleva dire che, come avviene per ogni nostra esistenza, una crisi è l’occasione per interrogarsi, scoprire le cause, riesaminare i comportamenti avuti, farne un motivo per proporre e applicare i cambiamenti necessari, spezzare i dogmi nefasti, avere il coraggio di ricorrere a ciò che sino a quel momento si era ritenuto un’utopia. Non lo si è fatto.

A dargli ragione sembra il rapporto appena uscito del Fondo monetario internazionale. A dieci anni dalla crisi rimangono gli stessi interrogativi attorno alle cause e alle conseguenze (basterebbe pensare all’enorme indebitamento e al suo uso), rimangono persino peggiorati gli stessi dogmi neoliberisti. Tanto che la questione più pertinente consiste nel determinare come la prossima recessione sarà peggiore.

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