Commento

Sono i mercati a decidere

La manovra finanziaria espansiva del governo italiano, più che i giudizi delle istituzioni europee, dovrà temere la valutazioni delle agenzie di rating

Il presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte con Tria, Di Maio e Salvini (Keystone)
6 ottobre 2018
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In balia delle agenzie di rating e dei mercati finanziari. È questo il rischio più grande che corre l’Italia nelle prossime settimane, più che gli strali della Commissione europea. Il parlamento nelle prossime settimane dovrà attuare, modificando le leggi di spesa necessarie, quanto previsto dal governo con la cosiddetta nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza riassumibile in maggiori spese sociali (reddito di cittadinanza e pensioni più generose) e tagli fiscali (flat tax per le partite Iva). Prima del legislativo, eletto dai cittadini, sarà l’Ufficio parlamentare del bilancio (autorità indipendente) a certificare o meno che quanto proposto dall’esecutivo sia compatibile con l’equilibrio di finanza pubblica. Passaggi istituzionali seguiti anche dal presidente della Repubblica. Alla fine di tutto questo percorso, dettato da regole che ogni democrazia si è data, dovrebbe arrivare il giudizio delle istituzioni comunitarie. Sarebbe quindi Bruxelles, a inizio dicembre, ad avere l’ultima parola su quanto un Paese, membro del club dell’euro, può spendere o quanta pressione fiscale può avere. Nessuna economia dell’Unione monetaria europea è stata costretta con la forza ad aderire, diciamo così, al club. Le regole di comportamento erano note da tempo: rapporto deficit/Pil non superiore al 3%; rapporto debito/Pil inferiore al 60% e un tasso d’inflazione che converge verso il 2% massimo. Sono i cosiddetti parametri di Maastricht che per quanto riguarda il rapporto deficit/Pil e il livello di debito pubblico sono rispettati dalla sola Olanda (al 52%). Nemmeno la virtuosissima Germania, che ha un rapporto deficit/Pil positivo, centra questo obiettivo (è al 61 per cento).

L’Italia si era impegnata in sede europea a ridurre progressivamente il peso relativo del suo enorme debito pubblico (132% del Pil) con la sottoscrizione del cosiddetto ‘Fiscal compact’ nel 2012. Un accordo intergovernativo che ha sostituito il precedente ‘Patto di stabilità e crescita’ (un vero e proprio ossimoro) e che impone un percorso di rientro nei parametri di Maastricht molto più rapido. Peccato che da allora l’economia italiana – anche grazie alle manovre finanziarie lacrime e sangue di Mario Monti – sia cresciuta meno di quanto auspicato. Un fattore che ha peggiorato il rapporto debito/Pil. Rimanendo fermo il numeratore (il debito) e diminuendo il denominatore (l’ammontare del Pil), anche un ragazzino di quinta elementare intuisce che il risultato è destinato ad aumentare. È semplice aritmetica e non un concetto astruso di macroeconomia. Ora il buon senso suggerisce che per ridurre tale rapporto bisognerebbe almeno tentare di aumentare il denominatore, ovvero stimolare la crescita economica anche facendo un po’ più di deficit del necessario. Ed è quello che il governo italiano si appresta a fare arrivando a spendere una quindicina di miliardi di euro in più rispetto a quanto promesso all’Europa, e ai mercati, dai governi precedenti. Soldi che andrebbero appunto a sostenere i redditi della popolazione più povera, a facilitare il pensionamento di qualche ultrasessantenne in più e ad alleggerire dal peso fiscale la marea di partite Iva (spesso salariati ‘vestiti’ da professionisti) che in questi anni è cresciuta oltremisura e senza tutele, né previdenziali, né sociali.

Il buon senso cozza però con la razionalità (o irrazionalità, dipende dai punti di vista) dei mercati finanziari e delle agenzie di rating, che aggrappati ai numerini hanno in mano il destino della terza economia europea. Le agenzie che promuovevano con la tripla A – il voto massimo – le obbligazioni di Lehman Brothers e i mutui subprime.

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