Commento

Quando Di Maio fermò il sole

Non che ci sia da fare gli spiritosi. La manovra economica varata dal governo italiano è infatti un gesto di estrema libertà e solenne ambizione

29 settembre 2018
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L’abolizione della povertà per decreto, annunciata da Luigi Di Maio, è seconda, per inventiva, soltanto all’episodio dell’Antico Testamento in cui Giosuè ordinò al sole di fermarsi per dargli il tempo di vincere la battaglia contro gli Amorrei.

Non che ci sia da fare gli spiritosi. La manovra economica varata dal governo italiano è infatti un gesto di estrema libertà e solenne ambizione, quanto cioè fa grande la politica… se si accompagna a un terzo elemento, la responsabilità.

Detto moltissimo in soldoni – d’altra parte la finezza politica dei grilloleghisti non va oltre – è una manovra che pretende di abbassare le tasse e alzare le spese. Di assegnare un “reddito di cittadinanza” di cui i beneficiari stessi e la loro discendenza pagheranno gli interessi. Di finanziare “il più grane piano infrastrutturale” mentre si dà una plastica dimostrazione di incapacità nell’affrontare un’emergenza come la ricostruzione del Ponte Morandi.

L’escamotage retorico del “non impiccarsi allo zero virgola”, utilizzato per mettere a tacere i severi custodi dell’ortodossia contabile, avrebbe anche un fondamento se non uscisse da certe bocche. Ignare di quanti miliardi di nuovo debito significhi un decimale di deficit per un Paese come l’Italia che ha negli interessi da pagare sul proprio debito un cappio al collo.

Non che il deficit sia un peccato, non siamo mica tedeschi. È sacrosanto che una famiglia, uno Stato possano indebitarsi per affrontare una situazione di difficoltà, o per investire in un progetto di risanamento e di crescita. E solo una sventurata ottusità ideologica ha consentito che in Europa si radicasse l’equivalenza tra debito e colpa.

Lo stesso vale per quell’osceno totem dei “mercati”, al quale l’intero mondo si è inchinato. Il problema è che per muovere guerra agli ordoliberisti o agli speculatori bisogna esserne all’altezza. E quando si cerca una prova di forza bisogna essere forti. Sinora, tuttavia, questo governo ha dimostrato d’essere forte solo con chi sta per annegare nel Mediterraneo.
Ma attribuire alle facoltà dei Di Maio questo pur modesto ragionamento sarebbe troppo. E sarebbe un errore non capire che quando si tratta di ferocia è il governo Salvini e quando di dabbenaggine è quello Di Maio. Nel caso della “Manovra del Popolo” ha prevalso il secondo (forse “mandato avanti” da Salvini stesso).

Un misto di velleitarismo e immoralità di antica tradizione. Per cui si finanzierà una, irrisoria, parte del debito con l’ennesimo condono fiscale (in qualsiasi altro modo lo si chiami) e con i tagli ai servizi pubblici, quelli che un democristianissimo Di Maio ha espresso con la formula “riorganizzazione della spesa pubblica improduttiva”, in termini concreti la spoliazione (che procede da decenni) delle realtà periferiche dei servizi minimi– dalla sanità all’istruzione ai trasporti – che davvero danno “dignità” all’essere cittadini di uno Stato.

Se la manovra finanziaria è l’espressione più tangibile dell’indirizzo politico di un governo, questa lo è in misura esemplare. Non intacca in alcun modo il “sistema” (che non mette in discussione), ma tira sassi alle sue vetrate, chiamando ciò rivoluzione.

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