Commento

È la scuola dei nostri figli

Riflessioni post-referendum sul futuro dell’educazione in Ticino

25 settembre 2018
|

Si potranno dire tante cose, ma oggi sembra quasi che la scuola sia finita per essere vittima di se stessa. Il dibattito che ha preceduto la votazione sulla sperimentazione del progetto ‘Scuola che verrà’ (Scv) e quello che continua in questi giorni hanno perso in buona parte di vista ciò che in realtà doveva, dovrebbe, rimanere sempre al centro dell’attenzione: gli allievi. Man mano che ci siamo avvicinati alla quarta domenica di settembre, le discussioni hanno acquisito una dimensione quasi esclusivamente politica. Si potrà ben affermare che la scuola è e rimane un’istituzione pubblica e, in quanto tale, terreno di dibattito politico per antonomasia. Ma la questione centrale sta nel capire, ricordiamocelo per favore, quale realtà educativa stanno vivendo e vivranno i nostri figli; come noi, in quanto comunità delegante, formiamo le generazioni future (deleghiamo alla scuola il compito di preparare i nostri ragazzi per, un giorno, uscire nel mondo). E se al centro dell’attenzione devono restare gli allievi, il nodo del dibattito, del progetto di riforma e dell’esito stesso della votazione possono tutti, paradossalmente, essere osservati da un punto di vista strettamente didattico-metodologico (quello stesso sguardo oggettivo intorno a cui girava la questione ma che si è un po’ smarrito strada facendo).

Chi, come il sottoscritto, ha avuto la fortuna di conoscere approfonditamente un approccio educativo diverso rispetto a quello tradizionale, avrà potuto constatare che ci sono alcuni presupposti fondamentali, sul piano pedagogico, che consentono o meno la buona riuscita dell’insegnamento e dell’esperienza scolastica nel suo insieme. Nelle scuole Waldorf (come in quella di Minusio, che ebbi l’onore di dirigere per un lustro) vi è un ordine di fattori, un principio didattico (potrei anche dire epistemologico) sacrosanto: sperimentazione-rappresentazione-concettualizzazione. Questa è la struttura di base che sorregge ogni lezione, di tutte le materie. È anche questo in generale il modo in cui si cerca di procedere nelle discussioni pedagogiche e, perché no, pure in quelle gestionali. Dal particolare verso il generale: partire dal fenomeno vivo, osservarlo, rappresentarlo, fino ad arrivare a comprendere la legge scientifica che lo determina. In questo senso il percorso avviato dal Decs con il progetto Scv, pur con tutte le mancanze di contenuto e gli errori procedurali che si vogliano, aveva questo pregio: intendeva cominciare dalla sperimentazione, cercava prima di tutto una prova empirica per poi passare a formulare una ‘legge’ in senso lato. Ma non ha saputo o non è riuscito a spiegarsi. Forse perché ormai è tanto, troppo tempo, che la scuola segue ogni giorno un percorso d’insegnamento capovolto con gli allievi, che parte dalla teoria, dai concetti astratti, da ciò che i bambini “devono sapere” prima ancora di sperimentare. Generazioni e generazioni di studenti, oggi adulti votanti, tendono pertanto a pensare che questo modo di astrazione aprioristica sia l’unico possibile. Proprio il modo che la Scv intendeva, anche se un po’ tiepidamente, iniziare a mettere in discussione.

Dunque s’inciampa davanti all’ostacolo che, in un qualche modo, la didattica stessa della scuola ha contribuito a creare, e che ci ha lasciato impresso con la forza dell’abitudine; in una società che di fronte al cambiamento esprime, prima di tutto, paura. Ma la paura paralizza e il tempo continua a scorrere. Speriamo che quando ci si sveglierà non sarà troppo tardi (per i nostri figli).

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE