DISTRUZIONI PER L'USO

Potrebbe piovere: l’Italia a 10 anni dal crac di Lehman Brothers

Già debole di suo, la ‘vicina penisola’ non si è ancora ripresa dalla Grande Recessione

Foto Keystone
22 settembre 2018
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Sono dieci anni che è fallita Lehman Brothers, e sono dieci anni che l’Italia – unico fra i paesi ‘sviluppati’ – non si è ancora ripresa. Disoccupazione, disuguaglianze, il deterioramento costante del tessuto economico e del ‘capitale sociale’ sono sotto gli occhi di tutti (e a volersene appropriare con un po’ di cinismo, i monconi del ponte di Genova ne sono l’icona perfetta). Viene in mente quel “vi scrivo da un paese che non esiste più” usato da Giampaolo Pansa per raccontare il disastro del Vajont, con tutto che l’allarmismo sta ai giornali come la panna ai cattivi cuochi.

Vecchi chiodi

Non che sia solo colpa della crisi. Il debito pubblico italiano viene dai ruggenti anni 80, quando i bilanci parevano compilati nel privé di una discoteca, dopo svariate bottiglie. E i cosiddetti ‘fondamentali’ italiani – mercato del lavoro apoplettico, istruzione decente riservata alla ‘buona’ borghesia, diritto societario siberiano e via dicendo – scricchiolavano parecchio già prima del 2008. La crisi – o meglio la sua gestione a livello europeo – ha semplicemente fatto precipitare tutto. È la vecchia storia del chiodo messo a reggere per anni un quadro troppo pesante, che a un certo punto si sfila dal muro e manda tutto in pezzi: il grosso del lavoro lo fanno per anni il peso e la ruggine, ma è quell’ultima scossettina che lascia schegge di vetro ovunque. Si sarebbe potuto evitare?

In teoria, l’Italia aveva fatto bene i compiti: nel 2008 aveva trascorso vent’anni sotto una dieta fiscale rigorosa, riducendo di un quinto il rapporto debito/Pil. Le sue banche non si erano lanciate nella sbornia dei subprime come le gemelle tedesche e francesi, tanto che all’inizio la crisi pareva toccarla solo di striscio. L’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti, ricorda ‘Il Post’, spiegò che ‘le banche italiane non parlano inglese’. All’epoca, era un complimento.

Rosemary’s Baby

Poi però arrivò il fuoco amico da Parigi e Berlino. Merkel e Sarkozy dissero chiaro e tondo che ogni nazione era responsabile unica del suo debito – affermazione discutibile per l’Eurozona – e imposero due regole: misure di risparmio draconiane, e partecipazione dei privati alla ristrutturazione del debito ‘tossico’. Troppo tardi e al momento sbagliato, i grandi capitali fuggirono verso titoli pubblici meno redditizi, ma più sicuri: e iniziò l’impennata dei premi richiesti ai paesi mediterranei. Era nato il ‘Rosemary’s Baby’ de’ noantri: lo spread, ovvero la differenza fra il rendimento richiesto su titoli italiani e tedeschi.

Nel frattempo – con buona pace di ottant’anni di storia – l’asse continentale impose l’austerity. Le motivazioni della scelta erano puramente elettorali: in paesi come la Germania il debito è trattato peggio del fumo, e una politica che invocasse il controintuitivo “spendiamo di più per uscire dalla palude” sarebbe bastonata alle urne. Certo, senza spesa pubblica è impossibile sostenere l’economia: ma l’elettore capisce meglio il caro vecchio ‘in tempo di vacche magre si stringa la cinghia’, e si preferì la storiella facile a quella vera.

Vicino all’osso

Per l’Italia fu un disastro (e forse la Germania perse un’occasione per diventare in Europa il nuovo ‘egemone generoso’, come lo fu l’America). Certo, ducetti ormai bolliti come Silvio Berlusconi non aiutavano. Ma anche Mario Monti poté solo tagliare, arrivando molto vicino all’osso. L’urgenza del risparmio non lasciava tempo per impostare anche le necessarie ‘reti di sicurezza’.

La contrazione della spesa aggravò la recessione, trasformandola in depressione. Il gettito fiscale peggiorò, dato che un’economia più povera può pagare meno tasse; e quindi attenersi al ‘fiscal compact’ diventò sanguinoso. Che poi il risparmio potesse tradursi in vera ‘disciplina’, a Roma, era una pia illusione: i tagli furono trasversali, la spesa improduttiva continuò a stagnare.

E infatti non fu l’austerità a evitare il peggio, bensì Mario Draghi. Il suo ‘whatever it takes’ – l’impegno a controbilanciare coi fondi della Bce la bassa marea degli investitori privati – salvò l’Italia dalla bancarotta e l’euro dal diventare il soldino del Monopoli. Forzando la mano Draghi riscrisse per Francoforte un ruolo più simile a quello della Fed americana: non solo controllore dell’inflazione, ma anche garante della stabilità economica (e quindi anche sociale).

Passo dell’oca

Ma ormai il danno era fatto. Le misure di risparmio sono lì per restare. Il malcontento generale priva di influenza e credibilità le dirigenze politiche ed economiche (per dirne una: dieci anni fa noi piccoloborghesi ascoltavamo i sermoni della Confindustria come il prete alla domenica; adesso non ci ricordiamo neanche più chi la presiede). Le differenze di reddito continuano a scorticare una parte della società. La distanza fra nord e sud, già enorme, si è fatta siderale. L’occupazione non riparte. Il Pil perduto non è stato ancora recuperato.

È dall’inverno di questo scontento che viene la ‘Terza Repubblica’. Un misto di antielitismo, capri espiatori (i migranti) e promesse insostenibili (la flat tax, il reddito di cittadinanza). Una marcia trionfale – a passo d’oca – su questa ‘età del risentimento’. Nel frattempo le regole per la finanza restano immutate – a parte piccoli interventi cosmetici come Basel III – ed è impossibile escludere l’ipotesi di un nuovo collasso: il debito pubblico mondiale è tre volte quello del 2008, l’economia non reagisce al pungolo dei bassi tassi d’interesse. Come direbbe il compianto Marty Feldman (l’Àigor di Frankenstein Junior): “Potrebbe andare peggio. Potrebbe piovere”.

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