Commento

Oltre il ponte è crollato anche il legame umano

Non buttiamola in politica. Ammesso che non lo si debba, sembra che non lo si possa evitare.

Keystone
16 agosto 2018
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Non buttiamola in politica. Ammesso che non lo si debba, sembra che non lo si possa evitare. Eppure, dopo una tragedia come quella di Genova, un minimo di decenza richiederebbe ai titolari del discorso pubblico di anteporre l’esame onesto, e pur doloroso, delle circostanze – sin dalle origini – che hanno avuto per esito il crollo del Ponte Morandi, alla polemica emotiva e al calcolo. Ma niente da fare: del primo non c’è traccia, i secondi abbondano. La pietà per i morti è ridotta a un inciso in discorsi veementi di sdegno indirizzato all’altrui colpa.

Se, come sembra, le lacune progettuali (molte delle quali, tuttavia, rivelatesi solo a posteriori), una manutenzione regolare ma deficitaria in termini di diagnostica del rischio, e un crescente sovrautilizzo dell’opera possono spiegare il cedimento della campata, l’attribuzione delle responsabilità è già oggetto di un concorso a chi grida più forte, specularmente alle difese d’ufficio un po’ troppo ammodo per risultare convincenti.

E, soprattutto, si trascura il quadro storico preciso in cui quel ponte fu concepito ed eseguito, gli anni, cioè, in cui l’Italia, come altri Paesi d’Europa, finalizzava lo sforzo immane e disordinato di ricostruzione del dopoguerra, proiettandosi in avanti. Un “progresso” nel cui nome non si lesinavano sforzi né sacrifici, ambientali, paesaggistici e naturalmente umani. Genova stessa, la si guardi dal mare, è una fotografia perfetta di un esito che il pensiero dominante di allora rese inevitabile. E se oggi risulta più facile giudicare univocamente quegli anni senza distinguere tra dissennatezza e necessità, visionarietà e cinismo, speculazione e sviluppo, il farlo in questi termini non è propriamente equo.

Senza fare troppa teoria o avventurarsi in considerazioni aprioristiche, un operaio che partecipò alla costruzione del Ponte Morandi ne ha fatto una storia che sui giornali di questi giorni non leggerete. Emigrato a Genova dal Veneto per impiegarsi nel cantiere, come centinaia d’altri giunti da mezza Italia, ha detto all’agenzia Ansa: “Quel ponte fa parte della mia vita, la sua costruzione è stata un evento memorabile che ha reso orgogliosi tutti quelli che vi hanno lavorato”. Lo stesso preciso sentimento di quello sterminato proletariato che costruì le “piramidi” di quel tempo, nel cui ricordo fatiche rischi e, sì, sfruttamento, non si dissociano dall’ammirazione, l’orgoglio, per “l’opera”.

Se qualcosa è crollato, oltre al Ponte Morandi, è anche questo legame umano. E se qualcosa è stato tradito da chi in seguito non ha raccolto i segnali e gli avvertimenti del pericolo è la fiducia di chi, con le proprie mani, costruì. Dal Vajont all’altroieri.

Il vociare sguaiato di queste ore si rivela dunque ignorante e in malafede. La ricerca delle responsabilità necessita di tutto fuorché di proclami. Se la concessionaria della rete autostradale realizza utili e trascura il resto, non è, in senso stretto, colpa di questo o quel governo, ma il prodotto di un pensiero politico-economico che si è imposto negli ultimi decenni e che ha avuto le privatizzazioni come totem supremo.

Non solo. Molti di coloro che oggi gridano sono gli stessi (o dello stesso movimento) secondo i quali gli avvertimenti del grave stato di rischio del Morandi erano “una favoletta”, essendo l’opera destinata a “durare altri cent’anni”. Mentre un tale ministro, come per consolare gli italiani per la tragedia, nello stesso tweet li informava che, in definitiva, nella stessa giornata c’era anche una buona notizia: il dirottamento dell’Aquarius e del suo carico di migranti verso sponde non italiche. Cosicché, per non buttarla in politica, l’hanno buttata in vacca.

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