Commento

Anche la Turchia non è un’isola

Un ‘tweet’ di Trump con cui annunciava il raddoppio dei dazi sull’acciaio proveniente dalla Turchia avrebbe scatenato la tempesta perfetta sulla lira turca

16 agosto 2018
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Un ‘tweet’ di Donald Trump con cui annunciava il raddoppio dei dazi sull’acciaio proveniente dalla Turchia avrebbe scatenato la tempesta perfetta sulla lira turca con relativa svalutazione della moneta e fuga di investitori dal Paese. È questa una delle tesi che il presidente turco Recep Erdogan sta utilizzando a uso interno per rafforzare, per prima cosa, il sentimento antiamericano del suo popolo e quindi a ergersi a vittima di un complotto dei mercati. Un’idea che ha un certo fascino anche nell’attuale governo italiano con il vicepremier Luigi Di Maio che ha rilasciato alla stampa dichiarazioni del tipo “se qualcuno vuole usare i mercati contro il governo, sappia che non siamo ricattabili”. Da una parte all’altra del Mediterraneo, in contesti economici e sociali completamente diversi, c’è quindi un’idea comune e diffusa che ci siano ‘mani forti’ a orientare gli investitori. Che dietro i ‘mercati’ ci siano disegni più o meno egemonici ed eversivi. Infatti, il riferimento di Di Maio è alla famosa estate del 2011 quando il differenziale di rendimento (il famoso spread) tra i titoli pubblici decennali tedeschi (i Bund) e gli omologhi italiani (i Btp) superò i 500 punti base costringendo l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi alle dimissioni e aprendo la stagione del governo tecnico di Mario Monti. Un governo, quest’ultimo, che attuò riforme drastiche e impopolari proprio per calmare l’appetito dei famosi mercati che temevano che i soldi prestati al sistema Italia non tornassero più ai creditori internazionali. Più che l’antipatia per Silvio Berlusconi, erano i timori di politiche economiche sbagliate o non attuate a muovere gli investitori.

Una cosa analoga sta accadendo alla Turchia, pur con tutti i distinguo geopolitici del caso e con lo storico confronto Usa-Russia sullo sfondo, ovvero la solita guerra fredda tra Est e Ovest proseguita con altri mezzi.

Se i dazi di Trump sono stati il detonatore, l’economia turca covava però già da tempo fattori di vulnerabilità nonostante una lunga fase espansiva al ritmo del 7% l’anno. Il Fondo monetario internazionale aveva avvisato lo scorso marzo che l’economia era decisamente surriscaldata. Un monito respinto da governo e banca centrale la quale solo lo scorso giugno ha aumentato in due fasi i tassi d’interesse portandoli dall’8% (ben al di sotto dell’inflazione stimata a circa il 12% l’anno) al 16,5% e poi al 17,75%.

All’economia turca è successo quello che spesso capita alle economie emergenti che conoscono sì un’impetuosa crescita economica, ma con politiche monetarie e fiscali inadeguate. I governi e le banche centrali di questi Paesi, temendo che il ciclo espansivo si esaurisca anzitempo, stimolano oltre misura l’economia con continue iniezione di liquidità e investimenti pubblici. Ma quando una fase espansiva volge al termine – come è il caso turco – tali politiche invece di stimolare lo sviluppo del Pil, creano ulteriore moneta circolante, senza correlata crescita reale del Pil. Questo eccesso di produzione economica determina svalutazione monetaria e inflazione.

I famosi mercati guardano, tra le altre cose, proprio a questi fattori. E se un eccesso di inflazione distrugge il risparmio, nessuno è disposto a vedere bruciati i propri attivi. Men che meno i fondi internazionali d’investimento. Da qui la fuga da tutto ciò che è riconducibile alla Turchia. È una reazione pavloviana legittima, anche se non può piacere a chi è stato investito del voto popolare.

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