Commento

Dopo l’eclisse, possiamo tornare a dimenticare il cielo

Le luci delle città hanno trasformato il firmamento in un trascurabile lenzuolo nero di cui ci si ricorda solo nelle ‘grandi occasioni’. Una perdita culturale immensa.

Keystone
28 luglio 2018
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L’eclisse ci ha ricordato che esiste il cosmo. Ora possiamo tornare di nuovo a ignorarlo.
È peraltro molto facile in mezzo al bagliore dei lampioni dei centri cittadini, capaci di oscurare la flebile luce proveniente da decine, centinaia di anni luce di distanza. Il cielo bussa, ma ormai in pochi rispondono dato che il firmamento, visto dalle città, assomiglia a un lenzuolo nero con qualche decina di lucette pallide. Roba poco interessante, insomma…
Qualcuno direbbe forse – scomodando il marketing – che si vende male. E sebbene si possa pensare che, in fondo, vi sono cose ben peggiori (è vero), l’apatia verso la volta celeste è pur comunque un impoverimento culturale significativo per un genere umano da sempre ispirato dall’immensità della sfera celeste.

E così le generazioni dell’ultimo mezzo secolo sono tra le più informate teoricamente su quanto avviene negli spazi interstellari, ma anche quelle che meno di tutte conoscono davvero la mappa siderale. Non avendone esperienza diretta e, soprattutto, quotidiana, oggi fatichiamo addirittura a capire come le popolazioni antiche potessero avere una nozione così approfondita dei moti degli astri, tanto che c’è chi – confondendo la nostra stessa ignoranza per massima espressione dell’erudizione – non riesce spiegarsi come mai gli studiosi egizi, maya e aztechi ne sapessero altrettanto se non di più di noi. E allora, devono risolvere il dilemma e non volendo ammettere le nostre mancanze culturali (vuoi che nell’epoca del computer il cittadino medio non sia più intelligente degli antichi?), dev’essere per forza che a quelli la soffiata sia giunta dagli alieni. Un’ipotesi che, per carità, non sarà mai escludibile, ma che è tanto improbabile quanto denota una tremenda sfiducia nella capacità umana di farsi domande e darsi risposte.

Di più. Basterebbe per esempio ricordarsi che fino a duecento anni fa le uniche luci artificiali erano quelle delle lanterne, dei fuochi e delle torce e che quindi la volta notturna dominava il paesaggio ogni sera con migliaia di astri: spettacolo che oggi è riservato solo ai posti più bui del pianeta, come ad esempio i deserti o l’alta montagna. In passato il firmamento era dunque l’assoluto protagonista delle notti terrestri, con conseguente capacità di incuriosire, suscitare timore e domande esistenziali.
Non c’è quindi da stupirsi che i popoli di allora vi attribuissero un valore mistico e che le varie culture del mondo lo abbiano usato come lavagna per tracciarvi le figure della loro mitologia. Allora riconoscere le costellazioni era ricordare quelle storie e imparare la ciclicità del loro movimento significava tener conto delle stagioni e determinare con precisione le tappe fondamentali in una cultura prevalentemente contadina.

Per non parlare dell’uso fondamentale della mappa stellare fatta dai naviganti.
Esigenze che hanno aguzzato l’ingegno di allora e che oggi non sono più attuali. Anche per questo, forse, la nostra ignoranza si specchia nell’intelligenza “aliena” di chi ha vissuto centinaia o migliaia di anni fa.

A noi, purtroppo, sembra ci basti ricordarci del firmamento una volta ogni tanto, quando vi accade qualcosa di grosso. Tipo la Luna che si eclissa. Eppure basterebbe solo un poco di buona volontà per uscire “a riveder le stelle”. Sono sufficienti gli occhi. E un cielo buio.

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