Commento

Ovs, gli errori dei manager sono costi sociali

Quasi 1'200 persone hanno perso il posto di lavoro non per loro colpa. Si tratta di uno dei casi peggiori di licenziamenti di massa mai avvenuti

Il negozio Ovs di Bellinzona (Ti-Press)
21 luglio 2018
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Usare la Svizzera come base per l’espansione internazionale del marchio Ovs soprattutto verso l’Europa centrale (Svizzera, Austria, Slovenia e Ungheria). Era questo l’obiettivo ambizioso della società Ovs (universo Upim e Coin, per intenderci: aziende molto note al pubblico italiano) alla vigilia dell’operazione finanziaria che portò all’acquisizione della catena degli storici negozi Charles Vögele. Stiamo parlando del settembre 2016, non di altre ere geologiche. In poco meno di due anni la spedizione di conquista si è trasformata in una catastrofe stile Waterloo. I dati parlano da soli: 120 negozi chiusi e 1’200 persone lasciate a casa dalla sera alla mattina, senza nemmeno le più elementari garanzie di un piano sociale che – meglio specificarlo – non è la panacea a tutti i mali (in Svizzera esiste libertà assoluta di licenziamento), ma cerca perlomeno di mitigare le conseguenze sociali ed economiche di un licenziamento collettivo.

Il piano sociale non è un obbligo legale, purtroppo. E risponde a una logica puramente capitalistica. Mentre il salario è una prestazione economica a fronte del lavoro prestato, il piano sociale ‘risarcisce’ in parte la perdita del salario causata da errori del management. Una sorta di riconoscimento postumo per l’impegno profuso da parte dei dipendenti al fronte, che non hanno nessuna colpa per il fallimento della loro azienda, come è il caso della spedizione oltre confine di Sempione Fashion Sa, ora in moratoria.

Quest’ultima è l’emanazione svizzera del marchio italiano. E, indirettamente partecipata da Ovs Spa (società quotata alla Borsa di Milano) attraverso la Sempione Retail Sa, a sua volta partecipata da altre entità giuridiche che portano fuori dai confini italiani e svizzeri. Ma questo è il moderno capitalismo finanziario che si cela dietro un dedalo di holding, trust e società di gestione sempre alla ricerca della migliore allocazione possibile, dal punto di vista fiscale, operativo e reddituale. Quando uno di questi elementi viene a mancare o non rende quanto immaginato, si chiude e si lasciano i cocci a chi resta (Stato e assicurazioni sociali, ovvero a tutti noi). Per rimanere al Ticino, un caso analogo di questo capitalismo di rapina (perché così bisogna chiamarlo) lo abbiamo avuto anche con il fallimento della compagnia aerea Darwin, illusa dalle promesse del fondo d’investimento tedesco 4K.

L’avventura svizzera di Ovs, quindi, è stata cancellata repentinamente e deliberatamente con un tratto di penna sulla cartina geografica da parte dei manager quando si sono accorti che l’investimento non avrebbe generato i risultati immaginati. In un periodo storico nel quale il settore del commercio al dettaglio tradizionale vede i margini di guadagno assottigliarsi sempre più a vantaggio delle vendite online, chissà perché i manager di Ovs si sognavano in pochi mesi performance spettacolari dal mercato svizzero, che è uno di quelli in Europa più inclini alle sirene del web. Materia da psicologi o magari da magistrati. Meglio quindi, si sono detti, accantonare – nei bilanci sani di Ovs Spa – circa 54 milioni di euro (una sessantina di milioni di franchi) per perdite su crediti nei confronti di Sempione Fashion e altri 3 milioni di euro per eventuali spese legali. Non un franco però è stato destinato ai circa 1’200 dipendenti in terra elvetica, scaricati come un fardello inutile con nemmeno un “grazie e scusate tanto”. Per i sindacati, uno dei peggiori casi di licenziamenti collettivi nella storia svizzera e un esempio lampante, se ancora ce ne fosse bisogno, di cosa voglia dire socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

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