Commento

La generazione senza salario

Anche con una laurea in tasca si deve mettere in conto qualche stage gratuito (o quasi) per farsi le ossa e la rete di contatti

2 luglio 2018
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Anche con una laurea in tasca, oggi, quando va bene, si deve mettere in conto qualche stage gratuito (o quasi) per farsi le ossa e la rete di contatti, prima di iniziare a percepire il primo vero stipendio. Se va peggio, si passa di stage in stage, di promessa in promessa, posticipando sempre più l’entrata nel mondo del lavoro. L’attuale generazione di trentenni rischia di essere tra le più formate, ma anche tra le meno pagate per quanto produce. C’è chi può permettersi una fase di precarietà gravando sulla famiglia, c’è chi per stare a galla deve indebitarsi. L’entrata nel mondo del lavoro sembra diventare difficile, una realtà consolidata altrove, che si sta fiutando anche in Ticino. Già qualche anno fa, le autorità cantonali hanno richiamato le aziende, ricordando che lo stage, in sé positivo, deve avere un obiettivo formativo. Non è uno stratagemma per impiegare manodopera a basso costo. Se prolungato o seriale, se condito da promesse di un posto che non arriva con la sola certezza di una paga vergognosa, allora bisogna alzare le antenne, perché c’è odore di sfruttamento. Lo scorso anno, l’Ispettorato del lavoro ha rilevato una trentina di situazioni problematiche in questo senso in Ticino, dove sono stati constatati abusi in generale nel 9,2% delle aziende. Siamo tra i cantoni con la percentuale più alta di datori di lavoro svizzeri controllati (il 29% nel 2017) per conto della Commissione tripartita, sul totale delle aziende attive. I controlli ci sono, procedono per inchieste settoriali, ma ad esempio sui ‘falsi’ stage mancano le segnalazioni. Difficile allora farsi un’idea della reale portata del fenomeno. La trentina di casi sono la punta dell’iceberg? Oppure no? È quello che cerchiamo di capire con una serie di pagine dedicate al lavoro gratuito, un tema alla lente di un gruppo di ricercatori della Supsi, che parla di un fenomeno trasversale che rischia di avere effetti a catena sulla collettività. Se i giovani stentano ad avere un salario potrebbe risentirne, alla lunga, anche l’Avs in una società che rischia di diventare sempre più rancorosa.

Perché chi subisce non segnala, lo capiamo dalle testimonianze raccolte alle pagine 2 e 3. Giovanna 27 anni, laureata in architettura in Italia, lavora come stagista per quasi due anni in uno studio a Lugano, per mille franchi al mese, saliti alla fine a 2’500. Dice: «So che è difficile da capire ma in Italia avrei lavorato gratis, a Lugano almeno avevo una paga. Quando ho capito che il capo mi sfruttava mi sono rivolta ai sindacati. Mi spiace perché ho contribuito a portare in Ticino le condizioni di lavoro italiane». La grafica Laura, 40 anni, racconta di prove di lavoro pagate con prodotti di bellezza o bottiglie di vino e stage perenni a 1’800 franchi. L’ingegnere informatico Antonio, 35 anni, ha accettato uno stage di sei mesi in una start up a 460 franchi al mese e nessuno che lo seguiva.

Le storie che raccontiamo non sono indicative di un fenomeno, che altri devono accertare, ma indicano che forse c’è un problema di ignoranza. Sarebbe utile spiegare nelle scuole ai giovani che cosa è uno stage, quali sono le finalità e dove inizia lo sfruttamento, che è un cancro per tutti. Soprattutto per quegli imprenditori socialmente responsabili (e sono tanti!) che si ritrovano in casa la concorrenza sleale di chi impiega stagisti a paghe indecenti e li fa lavorare come professionisti.

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