Commento

La neolingua grilloleghista

Sentite questa: “Laura Castelli [sottosegretaria al Ministero dell'Economia e delle Finanze] ha incontrato oggi il Presidente dell’Istat per fare il punto sulla sinergia necessaria

28 giugno 2018
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Sentite questa: “Laura Castelli [sottosegretaria al Ministero dell'Economia e delle Finanze] ha incontrato oggi il Presidente dell’Istat per fare il punto sulla sinergia necessaria da mettere in atto con la politica per il raggiungimento degli obiettivi del contratto di governo”. Nel giorno (l’altroieri) in cui lo stesso istituto statistico italiano rendeva noto che i cittadini in stato di povertà assoluta sono oltre cinque milioni, il comunicato del Ministero citato è un saggio esemplare dello spirito dei tempi.
Sorvoliamo sull’opacità di linguaggio utilizzata dall’esponente di un movimento che ha fatto della “trasparenza” la propria bandiera (non si può impiccare una debuttante alla propria goffaggine), riflettendo piuttosto sul preteso adeguamento dei rilievi statistici ai disegni politici di chi siede al governo. Che non è paragonabile alla grottesca richiesta di un ente turistico ai servizi meteorologici di edulcorare le previsioni del tempo… È semmai lo svelamento, pur ingenuo, di un tentativo di manipolazione della realtà, caratteristica di un po’ tutti i regimi politici, ma particolarmente spiccata in quelli totalitari.
Allora non è per farla lunga, ma una ragione ci sarà se il sempre più diffuso l’insediamento di governi schiettamente autoritari (in nazioni che si pretendono democratiche, la novità è questa) si accompagna a un uso delle neolingue sempre più diffuso. Gli stili cambiano, da Washington a Budapest, da Roma ad Ankara, ma le due cose si tengono. Quando una portavoce della Casa Bianca definisce “fatti alternativi” le bugie propalate dal presidente, compie la stessa operazione di un Matteo Salvini che annuncia la “fine della pacchia” per i migranti che tentano di entrare in territorio italiano. Dove la bugia non risiede nella “fine” (alla quale si dedica con zelo degno di miglior causa), ma evidentemente nel definire “pacchia” un viaggio in condizioni infernali attraverso il deserto, la detenzione nei campi libici e il rischio mortale di una traversata del Mediterraneo in gommone. O nel definire “crociera” l’eventuale trasbordo su una nave mercantile o della guardia costiera o di una ong (queste ultime “taxi del mare”, secondo Luigi Di Maio).
Non è una questione secondaria, né liquidabile con un’alzata di spalle – verba volant – perché le parole di chi è al potere sono esse stesse strumenti di potere. La cui natura autoritaria non si rivela tanto nella quantità di bugie concepite e diffuse, quanto nel piegare il significato delle parole ai propri fini (più o meno ciò che un marxista classico definirebbe ideologia). I discorsi da osteria di un ministro dell’Interno, e quelli da liceale ripetente di qualche suo collega smettono di esser tali proprio perché le bocche da cui escono sono necessariamente associate a un ruolo pubblico che investe della propria (ir)responsabilità lo stato che rappresentano.
E c’è un’altra cosa, infine. Gli ideologi (anche in saldo, come quelli dei nostri giorni) hanno sempre prodotto conflitti. Ciò che oggi va sotto la definizione di “interesse nazionale” è un processo manipolatorio il cui esito sarà l’esatto contrario, proprio perché i conflitti sono stati composti (o evitati, come insegna la storia europea degli ultimi settant’anni) subordinando a una ragione diversa o superiore quello stesso interesse. Ciò che non figura nei programmi dei Salvini o dei Kaczynzki o degli Orban né del loro modello americano. Le neolingue di cui si servono sono micce accese.

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