Commento

I soldi dello Stato e il corpo del re

La bontà di un’azione sta nella quota di responsabilità assunta da chi la compie

16 aprile 2018
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La bontà di un’azione sta nella quota di responsabilità assunta da chi la compie. Se ti voglio bene davvero te lo dico senza mezze parole e non uso perifrasi tipo “a modo mio ti sono vicino”. Anche perché uno slancio convinto, libero da lacci e lacciuoli lessicali, risulta sempre efficace. La responsabilità di ciò che si sostiene, detta altrimenti, paga sempre. Perché diretta, appunto. Mal comprendiamo dunque il metodo adottato dal governo tutto e dalla maggioranza del parlamento nel proporre una riforma tributaria condizionata politicamente da quella sociale. Anzi, il contrario. Se la prima a fine mese verrà bocciata dal popolo dovrà essere cassata anche la seconda (sostiene il parlamento), senza che lo stesso popolo – su questo bizzarro vincolo – abbia diritto di parola. Perché non può formalmente averla; non può decidere sui cavoli e al contempo sulle capre. Ma perché non proporre solo e soltanto un oggetto, magari proprio quello in votazione (gli sgravi fiscali su patrimoni e grandi sostanze)? Magari non è un ricatto, come gli oppositori sostengono, ma certo prassi poco consona al buon funzionamento della democrazia popolare. E se anche le istituzioni elettive iniziano a deresponsabilizzarsi su questo fronte (oddio, con l’aria sovranista che tira per la verità non è neanche la prima volta), davvero ci restano poche carte da giocare.

Poi c’è una questione di merito che ci fa storcere il naso di fronte alla riforma tributaria in questione. Il governo parla di “simmetria dei vantaggi”, uno slogan che piace così tanto da averlo persino messo nell’opuscolo informativo. Nel senso, pare d’intendere, che ci sarebbe equilibrio. Un patto fra due parti che si direbbero contrapposte e qui hanno trovato un’intesa soddisfacente per entrambe. Una visione classista, che ricorda conflitti d’altre epoche quando le classi sociali erano cosa vera e soprattutto facilmente riconoscibili. A meno che si voglia far distinzione fra i ricchi veri e tutti gli altri, concedendo ai primi importanti risparmi fiscali e ai secondi supporti per migliorare le condizioni familiari e professionali. Come gli antichi patti italiani di mezzadria, dove un proprietario terriero divideva a metà il prodotto delle sue terre: la prima metà tutta per lui, la seconda per i suoi contadini, pochi o tanti non importava.

Il problema odierno, per la verità, è che la società si divide fra inclusi ed esclusi, e questi ultimi crescono a vista d’occhio perché con strumenti culturali inadeguati per comprendere il presente, perché con salari troppo bassi per soddisfare il tenore di vita standard e soprattutto perché non più parte di un insieme; non più soggetti in un contesto identificante, se non quello vago e generico dell’appartenenza territoriale. Insomma, non più “cittadini”. I primi, gli inclusi, al contrario lo sono eccome. Vivono sempre più dentro l’intero mondo e, bontà loro, non sanno cosa farsene dello Stato. Di uno Stato in particolare. È il ritorno al “corpo del re” preilluminista. Se con la rivoluzione francese “il potere sovrano del corpo sacro del monarca” si è spostato “alla persona giuridica della nazione” (Massimo Terni), con la globalizzazione finanziaria si è tornati al potere sacrale di pochi individui. Lungi da noi l’idea di tornare a tagliare teste, ma lasciateci almeno uno Stato capace di badare a se stesso, ovvero agli interessi della maggioranza del suo popolo, e non tagliate voi le risorse – certo importanti, quanto le ricchezze – di un potere individuale molto terreno; quello dei pochissimi super inclusi, appunto.

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