Commento

Tra innovazione tecnologica e buon senso

La legge cantonale a sostegno della imprese che innovano ha criteri di accesso giudicati troppo severi

(Ti-Press)
13 aprile 2018
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Il Ticino è uno dei pochi cantoni svizzeri ad avere una propria legge sull’innovazione economica. Una regolamentazione che esiste dalla fine degli anni 80, riformata in modo più o meno sostanziale nel corso degli ultimi tre decenni e che mira – con misure dirette e indirette – a stimolare la capacità d’innovazione delle imprese, soprattutto industriali. La ratio è ovvia e di assoluto buon senso: valorizzando lo spirito imprenditoriale e innovativo delle piccole e medie imprese, si pongono le premesse sia per la creazione di nuove aziende, sia per lo sviluppo e il consolidamento di quelle esistenti. Rafforzando il tessuto imprenditoriale locale si cementano le basi per lo sviluppo economico e il benessere generale di tutta la collettività: per le ricadute occupazionali e di know how in prima istanza e per quelle fiscali. Insomma, i 20 milioni di franchi del credito quadriennale (visti gli ottimi dati delle finanze cantonali potrebbero essere anche di più) non sono nient’altro che un benefico investimento per il territorio. Ma quando si parla di soldi pubblici l’attenzione deve rimanere alta per evitare una sorta di assalto alla diligenza dello Stato. Il rischio di finanziare fantasiosi progetti imprenditoriali che hanno l’unico scopo di ottenere risorse pubbliche non è quindi peregrino. Porre dei paletti rigorosi per l’accesso alle misure previste dalla Legge sull’innovazione non è di per sé sbagliato. Anzi, lo suggerisce il buon senso. I problemi, semmai, sono altri.

Nata per incentivare l’innovazione tecnologica – sia essa di prodotto o di processo –, la normativa ha inglobato in sé principi di tutela del mercato del lavoro. Bisogna ricordare che la genesi della riforma è avvenuta in un’epoca di forte critica (mai esauritasi) alla libera circolazione delle persone. Ricordiamo il voto del 9 febbraio 2014 favorevole all’iniziativa federale denominata ‘Contro l’immigrazione di massa’ e a quella cantonale su ‘Prima i nostri!’.

È in questo spirito che tra i criteri per l’accesso ai fondi pubblici (20 milioni di franchi per il quadriennio 2016-2019, in parte già assegnati) c’è quello – per le aziende richiedenti – di dimostrare di avere almeno il 60% dei loro dipendenti con un compenso di almeno 48mila franchi lordi l’anno (4mila franchi al mese per 12 mensilità) e una quota minima (30%) di personale residente. A questi due criteri si aggiunge una ulteriore clausola di dover rispettare tali condizioni per almeno dieci anni. Insomma, sono misure che a detta dei diretti interessati non hanno molto a che fare con l’innovazione tecnologica che – com’è nella sua natura – non avviene per decreto e nemmeno in un contesto puramente locale.

Aziende innovative e votate all’internazionalizzazione – e in Ticino ce ne sono (ne parliamo a pagina 6) – non sono certamente invogliate a ricorrere ai benefici di queste norme. Una revisione è quindi necessaria. Al prossimo giro parlamentare si potrebbe, per esempio, caldeggiare – per le imprese interessate – l’introduzione e il rispetto di un contratto collettivo di lavoro degno di questo nome. Anche questo è un suggerimento dettato dal solo buon senso.

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