Commento

In Ungheria vince Orbán, e perde l’Europa

La 3ª vittoria consecutiva non è solo il trionfo di idee iperconservatrici. È anche (soprattutto) uno scandalo istituzionale

9 aprile 2018
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Ricapitolando: domenica il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha conquistato il terzo mandato consecutivo. Maggioranza assoluta. Estrema destra montante in seconda posizione, socialisti annichiliti. Il ‘Viktator’ vince con una ricetta semplice e cruda che mescola nazionalismo, xenofobia e identitarismo religioso. Diopatriafamiglia. La prima tentazione è quella di allargare l’inquadratura: incastonare il risultato nel Kulturkampf fra cosmopolitismo liberale e mozzorecchi dell’anti-establishment, da Ukip ad Alternative für Deutschland, dal Front National alle leghe.

E di certo non mancano le somiglianze di famiglia, tanto che i discorsi di Orbán potrebbero essere tranquillamente attribuiti a ciascuna di queste formazioni. Esempio: “Vogliono prendere il nostro Paese. Vogliono costringerci a cederlo a stranieri provenienti da continenti che non rispettano la nostra cultura, le nostre leggi e il nostro modo di vivere”. Già sentita?

Ma il rischio, nel concentrarsi sullo scontro di culture, è di banalizzare il pericolo costituito da Fidesz. Trattandolo come un ‘semplice’ partito iperconservatore, che si confronta democraticamente coi suoi oppositori sul piano delle idee e dei programmi. Invece il partito-sistema ungherese è andato ben oltre. Ha sottomesso all’esecutivo il potere giudiziario, infiltrandolo e smantellando così le fondamenta della democrazia costituzionale. Ha ridisegnato a suo favore i distretti elettorali. Ha consegnato le chiavi dell’economia a un manipolo di fedeli oligarchi, sfamandoli con laute commesse pagate dall’Unione europea (denari “che sono per il regime quel che i proventi del petrolio sono per i despoti arabi”, nota il politologo Jan-Werner Müller). Ha imbavagliato la stampa, usando il ‘mercato’ per comprare le testate d’opposizione e smantellarle, fino a controllarne il 90%. Ha accerchiato le Ong critiche, decurtandone i fondi e sottoponendole al controllo dei servizi segreti, spesso con campagne dal tono antisemita contro il ‘nemico straniero’, Soros in primis.

La questione ungherese è dunque, prima ancora che una guerra d’idee, uno scandalo istituzionale.

Un Paese membro dell’Unione europea ha scelto di avvicinarsi a Vichy invece che a Bruxelles. E insieme agli alleati di Visegrád (Polonia, Cechia, Slovacchia, con l’Austria di Kurz come guest star) persegue impunemente uno spudorato doppiogiochismo. Budapest consolida le alleanze con i regimi dell’Est – Russia, Turchia, Azerbaigian, Kazakistan – ma intasca i sussidi europei. Intanto l’Ue, impreparata all’ipotesi di regressione autoritaria in uno dei suoi Stati, si lascia sbeffeggiare. Anche perché in Ungheria sono enormi gli interessi di imprese come quelle tedesche dell’auto, e dipendono anch’essi dal denaro europeo. Così quella che una volta era “la caserma più felice del campo socialista” è diventata l’ennesima polveriera nella storia della Mitteleuropa. E il resto del continente, come da tradizione, guarda altrove.

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