Commento

Una legge contro la Storia

La scelta del governo di ultradestra polacco, tre anni di carcere a chi parla di responsabilità polacche nell’Olocausto, va contro il senso della storia.

Auschwitz Wikipedia
3 febbraio 2018
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Ad Auschwitz, pardon, Oswiecim ci arrivai a bordo di un bus più che sgangherato preso a Cracovia. Estate 2006, quella dei 18 anni, di uno zaino, un amico e un giro per l’Europa senza niente di prenotato, né programmato. C’era un controllore, perché bontà nostra da Varsavia a Cracovia prendemmo un treno. Sghangherato come il bus, più anni 80 di un ritratto del generale Jaruzelski. Ecco, quel controllore mi multò. Sbagliato biglietto. D’altronde, chi lo capisce il polacco. Glielo dissi scherzando, nacque una conversazione anche simpatica. Chiese dove fossimo diretti. “Auschwitz”, risposi.

“Noi diciamo Oswiecim”, replicò. Lo disse con fierezza, quasi distacco. Come per ribadire che quella parola ‘tedesca’ non era loro, non la sentivano. Come per dire che c’era una violazione di territorio e lingua polacca, nel dire che la loro bella terra fosse stata teatro dell’orrore. “Bad years”, sospirò. Anni brutti. Sì, lo sappiamo, ahinoi. Però non era solo questo. Il controllore – mi pento sempre di non avergli chiesto il nome, ma avevo anche una multa da pagare con gli ultimi zloty rimasti in tasca – in cinque minuti mi spiegò perché quelli siano stati ‘bad years’. Perché da lì iniziò tutto. Le responsabilità polacche nella Shoah, nel collaborazionismo, nel dolore portarono alla pretesa lavata di coscienza del realismo socialista. Già nel 1949 Wislawa Szymborska, futura premio Nobel per la letteratura, si vide rifiutare una raccolta di poesie perché esse non rispondevano ai valori socialisti. E fu così che iniziarono le pressioni sugli intellettuali, vennero costruiti i casermoni grigi nelle immediate periferie delle città, venne piantato un chiodo rosso per scacciare il chiodo nero.

La scelta del governo di ultradestra polacco di punire con tre anni di carcere, per legge, chi parla di responsabilità polacche nell’Olocausto è una scelta che va contro il senso della storia. Soprattutto in un Paese che negli ultimi secoli è stato lacerato e raramente ha avuto la possibilità di rifiorire come nazione libera e indipendente, senza spartizioni come tra ’700 e ’800, senza regimi o collaborazionismi. Anche col nazismo, beninteso. Il 10 luglio 1941, ad esempio, ci fu il pogrom di Jedwabne. Gli abitanti non ebrei rastrellarono, fomentati dalle Ss, decine e decine di ebrei. Prima li picchiarono sulla pubblica piazza, poi li uccisero e gettarono in una fossa comune. Non fu l’unico caso di collaborazionismo, visto che esempi come questo portarono a creare una Resistenza al nazismo attiva e battagliera come poche.

Se la storia e il suo svolgimento hanno impedito alla Polonia di essere nazione a tutti gli effetti, oggi questa storia deve essere nascosta? La storia non va mai negata. Insegna cosa è stato sbagliato, perché non si ripeta. Ma bisogna compiere lo sforzo di ascoltarla, sennò è un esercizio inutile. Il vento in poppa dei nazionalismi nell’Est Europa mostra, impietoso, come chi oggi nota qua e là somiglianze con la fine della Repubblica di Weimar qualche ragione ce l’ha.

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