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La 'blockchain' non è una valuta

Nel momento in cui le criptovalute in generale e il Bitcoin in particolare sono sulla bocca di molti, stona l’attuale silenzio della Finma.

13 gennaio 2018
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Nel momento in cui le criptovalute in generale e il Bitcoin in particolare sono sulla bocca di molti, stona l’attuale silenzio della Finma. Le uniche prese di posizioni ufficiali dell’autorità svizzera di vigilanza sui mercati finanziari consistono in una scheda informativa risalente al 2014 (un’era geologica fa per i tempi dell’informatica) e un paio di comunicati (l’ultimo risale allo scorso settembre) con i quali avvertiva gli investitori che possono esserci dei rischi a investire in criptovalute. Rischi legati a possibili truffe nelle operazioni di Ico (Initial coin offering) e alla estrema volatilità con cui cambia il prezzo di questo asset finanziario, da alcuni definito addirittura ‘oro digitale’. Da allora più nulla.

Nel frattempo la quotazione in dollari del Bitcoin su alcune piattaforme è tornata sopra i 14mila passando, nel giro di 24 ore, due volte da 12’500: una variazione, al ribasso e al rialzo, di oltre 1’500 dollari. Una manna per chi ama le emozioni forti ed è ben corazzato dal punto di vista finanziario. E per gli altri? Una valle di lacrime e sangue.

Come è noto, le criptovalute si basano sulla tecnologia ‘blockchain’ ritenuta innovativa e interessante per le sue numerose potenziali applicazioni, non solo in ambito finanziario. Si parla infatti di ‘smart contract’, ovvero di contratti intelligenti, che potrebbero cambiare per sempre il lavoro di avvocati o notai e non solo. Si tratta in pratica della ‘trasposizione’ in codice informatico di un contratto legale, in modo da verificare in automatico l’avverarsi di determinate condizioni e di autoeseguire azioni (o almeno dare disposizioni affinché le si possa eseguire) nel momento in cui quanto pattuito tra le parti è raggiunto o verificato. Il campo di applicazione è quindi potenzialmente vastissimo e ancora da definire: dai classici contratti futures al consumo ‘on demand’ di qualsiasi prodotto digitale, passando per la stipula di polizze assicurative di qualunque genere. Non per nulla l’Australian securities exchange di Sidney, ovvero la Borsa australiana, ha annunciato all’inizio dello scorso dicembre di voler testare la blockchain in vista di una sua adozione per le transazioni di mercato.

La bontà e le potenzialità di questa tecnologia non giustificano però le quotazioni stellari a cui sono giunte tutte le criptovalute (che sono un migliaio ormai, il Bitcoin è solo la più nota e diffusa). L’unica ragione di tanto successo è quindi di natura speculativa. Si acquistano criptovalute con la convinzione che il loro valore salga sempre di più e che prima o poi si lascerà la famosa patata bollente a qualcun altro. Anche l’introduzione di alcuni strumenti d’investimento derivati espressi in Bitcoin da parte della Borsa di Chicago, pur facilitandone gli scambi, crea di fatto il presupposto per una speculazione ulteriore e quindi la possibilità di un crollo repentino.

Proprio questa settimana quattro notizie sono rivelatrici della natura effimera delle criptovalute: la Corea del Sud intende vietarne le piattaforme di scambio; la Cina pensa di sopprimere l’attività di ‘mining’ (la creazione di criptovalute) per l’eccesso di consumi elettrici; mentre due volponi della finanza mondiale, Warren Buffett e Jamie Dimon (amministratore delegato di JP Morgan), hanno opinioni divergenti sul Bitcoin: il primo lo considera poco più che fuffa, il secondo si è pentito di averlo definito tale soltanto pochi mesi fa. Nel dubbio, anche se la Finma non fa quasi nulla e lascia correre, a nostro avviso è meglio stare lontani da questo mondo.

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