Commento

Distruzioni per l'uso | 'T contro T'

9 dicembre 2017
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“Piove sui giusti e sugli iniqui” dice il Vangelo di Matteo. “E cosa c’entriamo noi nel mezzo?”, commenta perplesso Snoopy. Viene da chiedersi lo stesso leggendo ‘T contro T – Te lo do io il liberismo’, agile confronto fra Tito Tettamanti e Alfonso Tuor alle prese coi massimi sistemi dell’economia globale. Entrambi concordano sul fatto che mala tempora currunt: disuguaglianze, speculazioni e una cricca mondiale – l’alta finanza, il Fondo Monetario, le banche centrali - ci rendono tutti più poveri e schiavi.

Colpa dei liberisti, anzi no

Battibeccano invece sulle ragioni di tale sfacelo: Tuor incolpa il neoliberismo, che ha svincolato il mercato dalle responsabilità politiche, ha depresso i salari occidentali grazie alla mobilità dei capitali, e ha creato un eccesso di offerta che solo l’indebitamento può sostenere. La controprova? La crisi del 2008, quando fu appunto il debito marcio ad affondare i mercati, costringendo gli stati a salvare i robber barons di Wall Street.

Tettamanti dissente. È vero che c’è una “Santa alleanza” globale, ma non prendiamocela coi liberisti: la colpa è semmai di una superburocrazia globale, erede dei “ceti parassitari” di un “sistema social-democratico e statalista”, che drena risorse e intralcia l’impresa. “Il mercato, come tutti gli ecosistemi, si auto-regola e cerca un equilibrio: ma questo è un processo doloroso, difficile, complesso, che è rischioso provare a condizionare e manipolare con interventi esterni”.

‘Noi nel mezzo’ possiamo imparare da entrambi, e far tesoro delle rispettive obiezioni. Ha ragione probabilmente Tettamanti, quando ricorda a Tuor il contributo decisivo della globalizzazione contro la povertà mondiale, e l’innalzamento trasversale degli standard di vita. Tuor colpisce nel segno, invece, quando ribatte che le liberalizzazioni più aggressive hanno contribuito alla crisi, a dimostrazione del fatto che la ‘legge del mercato’ non è sufficiente a disciplinarne gli attori.

Che fare?

Il brutto di questo approccio ‘pugilistico’ è che costringe a estremizzare, al punto che la parte prescrittiva (intitolata, con ironico leninismo, ‘Che fare?’) in realtà non prescrive un bel nulla: stremati, i pugili si abbracciano al centro del ring, per sostenersi a vicenda. Sussurrandosi nelle orecchie una visione apocalittica del presente, unica cosa che condividono. Tuor la butta sul diopatriafamiglia: “Mi ritrovo a difendere il valore delle radici, della patria e dell’identità culturale, poiché non voglio essere l’utile idiota dei poteri forti.” Tettamanti, rinunciando a quell’amoralismo un po’ anarchico che è il dono migliore dei libertarians, rilancia con una serie di cliché: “i poteri forti fanno loro istanze culturali, del progresso ecologico, dei generi (sic), della multiculturalità e non si oppongono alla dissacrazione di miti e valori”. Poi “manca il lavoro sicuramente, ma forse manca anche la voglia di lavorare. Abbiamo inculcato ai ragazzi i diritti, trascurando di parlare dei doveri.” Ne ha perfino per “i gabinetti per i transgender, ormai diventati una delle preoccupazioni maggiori della nostra società”. Aggiungerei che non esistono più le mezze stagioni e che non si trovano più quei bei cachi di una volta, poi direi che la geremiade è completa.

Retrotopia

Il più progettuale è Tuor, anche se a volte pare un incrocio fra Savonarola e un black bloc. Invoca addirittura la resistenza contro lo spossessamento di sovranità imposto dalla globalizzazione, “una nuova lotta di classe tra potere e classi subalterne”. Ma questa lotta non è pensata in chiave internazionalista. Non più “proletari di tutti i Paesi, unitevi!” bensì una ritirata nazionalista, volta ad esaltare la patria come unità di misura del mondo: “la democrazia ha bisogno di un popolo e questo popolo esiste solo a livello nazionale”.  

Mi pare una fuga all’indietro, una reazione non tanto alla globalizzazione, quanto alla modernità e al cambiamento in quanto tali. Una “retrotopia”, per dirla con Bauman. Ne è sintomo l’ormai consunto invito a “riprendere lo spirito dei grandi accordi di Bretton Woods del 1944”: cooperazione internazionale e commercio, sì, ma rimettendo gli Stati a capo del gioco, e reintroducendo controlli sui movimenti di capitale, pur di garantire giustizia sociale e diritti dei cittadini. Dimenticando – ah, les neiges d’antan! - che è proprio da quell’accordo che è ripartita la globalizzazione, nella speranza liberale che con gli scambi e lo sviluppo economico si sarebbe consolidata anche la pace. E il tutto stava in piedi solo grazie all’egemonia americana: trovala oggi, una Washington che voglia o possa fare altrettanto.

Dissolta questa cornice storica, lucidare i vecchi ottoni del nazionalismo è, nel migliore dei casi, qualcosa di inutilmente crepuscolare: ricorda tanto “Loreto impagliato ed il busto di Alfieri,” “le buone cose di pessimo gusto” di Gozzano. Nel caso peggiore, invece, è fare il gioco puerile dei lepenisti, dei grillini e dei leghisti, egualmente interessati a “liberarsi di questi politici e di questo establishment.”

Se gli Stati devono ripensarsi come corpi intermedi fra i cittadini e le forze della globalizzazione, mi pare difficile che possano farlo rinunciando a una forte carica internazionalista. Non sarà il singolo staterello a potersi imporre contro la ‘Santa Alleanza’ globale. In ogni caso, incollare alla concezione dello stato l’oleografia della nazione e del popolo, delle radici e delle tradizioni, inasprisce le incomprensioni e inceppa qualsiasi progetto federativo. Non mi pare poi che fosse questo, lo spirito di Bretton Woods.

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