Commento

Distruzioni per l'uso | Mentalità di frontiera

Gipi, 'Oltre il confine'
25 novembre 2017
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Per chi è cresciuto con ‘Jeux sans frontières’, e da bimbo guardava a bocca aperta i giovani scavalcare il Muro di Berlino, l’involuzione dell’immaginario collettivo quando si parla di frontiere è spiazzante.

Chiusa la Guerra Fredda era tutto un parlare di globalizzazione, allargamenti, ‘mondo piatto’. La frontiera pareva fatta per scavalcarla: dentro e fuori l’Europa immaginavamo praterie infinite (ma gli indiani stavolta li avremmo abbracciati, mica ammazzati.) Ci ubriacavamo di Montesquieu: “sono necessariamente uomo, e francese solo per caso”. Cantavamo “the frontiers are my prison”. Anche l’economia tirava, e “una marea che sale solleva tutte le barche”, come diceva Kennedy.

Certo già allora c'erano segnali in controntendenza: la stessa caduta del blocco sovietico aveva contribuito ad aggiungere ventiseimila chilometri di frontiere politiche alla mappa europea, con conflitti sanguinosi come quelli balcanici. Ma a noi pareva che fosse solo una ragione in più per non fermarsi davanti a muri e ramine. Col senno di poi ha probabilmente ragione Mattia Feltri, che ricordando Srebrenica scrive: “la guerra di Jugoslavia non era la fine del passato ma l’inizio del futuro. Stavamo ricominciando a tirare su muri, a dividerci per etnia, per lingua, per religione e oggi ancora non ci siamo, ma il compimento è vicino.”

Brusco risveglio

Per dire: una decina d’anni fa pareva davvero che l’Europa potesse includere la Turchia. Oggi, se qualcuno proponesse una cosa del genere lo faremmo rinchiudere. Perfino Schengen è rimessa in discussione, e a volte ci si domanda chi gliel’abbia fatto fare, all’Ue, di andare a prendersi Polonia e Ungheria. Marcia indietro, dunque: frontiere che si richiudono. Porte che sbattono in faccia a chi cerca di entrare, a chi “vive all’incrocio dei venti ed è bruciato vivo.” Perfino la borghesia liberale, che aveva imparato dall’illuminismo scozzese e dai propri interessi a gettar ponti e integrare mercati, ha richiuso la buona causa nello sgabuzzino dei “sì, ma...”

Parecchi fattori hanno contribuito al trinceramento. Il mondo non è piatto, alcune barche salgono meno di altre, e l’indebolimento delle frontiere “ha coinciso con la rottura degli equilibri sociali, con la trasformazione dei rapporti di forza tra le potenze e con il rimescolamento di territori e identità.” (Manlio Graziano, ‘Frontiere’)  Poi ci si è messa la crisi, le barche di Kennedy sono finite in secca e il primo riflesso è stato quello di prendersela con la globalizzazione, gli immigrati, Goldman Sachs e compagnia bella. Aggiungi il terrorismo e ciao, cosmopolitismo.

Oppio dei popoli

Ora chi vorrebbe allontanare il mondo spaccia un potente oppiaceo: “ristabilire la visibilità delle frontiere placa l’ansia culturale di fronte ai rumori e ai furori del mondo”, scrive Michel Foucher ne ‘Le retour des frontières’. Dalla frontiera come luogo dell’abbraccio collettivo alla frontiera come barriera, dunque: un limes da imporre unilateralmente, noi dentro loro fuori, di qua la civiltà, di là la barbarie. I muri e l’America First di Trump, la Brexit e il melodramma catalano, gli starnazzamenti nostrani contro la libera circolazione sono la norma. Per dirla con Leonardo: “da Oriente a Occidente ogni punto è divisione.”

Sennonché indietro non si torna. Disfare l’integrazione mondiale equivale a fumarsi una sigaretta in una polveriera, e sì che noi europei dovremmo ricordarcelo. Essere padroni a casa propria è una pia illusione, in crisi da almeno due secoli. Dis-integrare i mercati col protezionismo ci renderebbe tutti più poveri, lo vedemmo con la Grande Depressione (e oggi il mondo produce ventisei volte quello che produceva allora: “lo storico errore sarebbe almeno ventisei volte più catastrofico”, nota Graziano.) La stessa Gran Bretagna si è accorta che uscire dall’Europa non è una birichinata senza conseguenze.

Ponti e stanzette

Lo stesso vale per il Ticino, spaventato com’è dalle difficoltà economiche, dal dumping, da migranti e frontalieri. Preoccupazioni legittime, ci mancherebbe, che richiedono misure sociali e risposte politiche concrete. Ma che non si risolvono chiudendo le frontiere. Un esempio: se dal 2000 a oggi il Ticino è cresciuto sopra la media svizzera, e perfino più di Zurigo, lo si deve in buona parte ai frontalieri. Inceppatasi la finanza (e l’evasione), che garantivano una crescita tanto esuberante quanto artificiale, si è dovuti tornare alle basi: crescere aumentando la cara vecchia forza lavoro. Puntando su quell’economia ‘reale’ che ha reclutato 50mila nuovi lavoratori. Una cifra che sarebbe matematicamente impensabile colmare coi residenti, e infatti 30mila posti li hanno riempiti i frontalieri. “I ticinesi devono più della metà della crescita realizzata dalla loro economia negli ultimi quindici anni all’aumento dell’effettivo di lavoratori frontalieri”, ha dimostrato bene Angelo Rossi su ‘Azione’.

Si potrebbe dire che così non si ragiona, che non ci interessa crescere se poi i soldi vanno (anche) nelle tasche di padroncini e magnaramina. Ma l’alternativa è più desolante: un Ticino stagnante, con meno soldi per tutto, dai banchi di scuola ai letti d’ospedale. Un Ticino che rinuncia al ruolo di cantone-ponte, principale ragione del suo boom, per assumere quello di stanzetta imbottita: spoglia e ben chiusa, come nei manicomi. Un impoverimento, ovviamente, anche sociale e culturale. (Le polemiche sull’Osi che impiegherebbe pochi musicisti svizzeri, o sul fatto di inaugurare il Lac con quell’Inno alla gioia che è anche inno europeo, ne sono un assaggio psicopatologico). E anche se ormai siamo più vecchi e disillusi, Montesquieu e le barchette di Kennedy hanno ancora qualcosa da insegnarci.

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