Commento

Distruzioni per l'uso | L'invenzione del dialetto

28 ottobre 2017
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Il dialetto è una delle tempere più vivaci con le quali ogni giorno si dipinge la vita ticinese. Anche chi ticinese non è, come me, impara presto a riconoscerlo come un elemento imprescindibile della vita qui. Anche perché fa capolino non solo in bar e piazze, ma anche sul lavoro. E basta un po’ di curiosità per accorgersi che chi parla dialetto in presenza di uno ‘straniero’ non lo fa per escluderlo, ma solo perché gli viene più spontaneo esprimersi nella lingua di casa sua (su cosa distingua lingue e dialetti si potrebbe aprire un’enorme parentesi, ma taglio corto sposando la definizione, espressa in yiddish, del sociolinguista Max Weinreich: “Una lingua è un dialetto con un esercito”). Quando in un grotto della Val Pontirone ti parlano in quel loro dialetto un po’ strascicato e sommessamente elegiaco, per dire, lo capisci che lo fanno perché non si ricordano neanche più che tu vieni dal mare. E ti si scalda il cuore.

Ben diversa, invece, è la strumentalizzazione del dialetto a scopi politici o perfino commerciali. C’era da aspettarselo, figuriamoci: in Ticino come in tutta Europa, la tendenza è quella ad aggrapparsi a tutto pur di affermare una propria identità unica, esclusiva, a chilometro zero. Non solo a destra, ma anche a sinistra ormai, chi non ‘radica’ non rosica. E allora anche il dialetto cessa di essere un modo naturale per comunicare qui ed ora, e diventa il presunto scudo contro “il disgregamento delle nostre tradizioni” (cito dalla mozione, approvata a schiacciante maggioranza dal Municipio di Lugano, per l’introduzione di corsi facoltativi di dialetto nei doposcuola).

Inventarsi la tradizione

Ora: a parte il fatto che non tutte le tradizioni meritano di essere preservate – chi si ricorda il violento paternalismo di certe famiglie di un tempo, non solo contadine, capirà di cosa parlo – secondo me non è così che si difende il dialetto. Utilizzarlo come grammofono di un remoto e venerando passato, ingessarlo in corsetti tirati su alla bell’e meglio per farne un monumento a un Ticino che non è più (e probabilmente non è mai stato), puzza di quell’andazzo che lo storico inglese Eric Hobsbawm definì “l’invenzione della tradizione”: la creazione di miti fondativi farlocchi, studiati ex post per alimentare un’ideologia nazionalista. Buoni per inoculare quell’identitarismo da zoccoletti e boccalino che un tempo si ammanniva solo ai turisti di passaggio. O al massimo per vendere qualche yogurt e formaggino, come dimostra il ‘rebranding’ goffamente dialettizzato di certi prodotti della grande distribuzione.

La premessa alla mozione – scritta in un italiano che richiederebbe ben più urgenti doposcuola – è esplicita: “Il dialetto è purtroppo in crisi da parecchi anni, in particolare tra le nuove generazioni che è sempre meno parlato (sic). Eppure fa parte della nostra identità territoriale e locale e delle nostre tradizioni”. Ma se è così, perché cercare di conservarlo artificialmente, a colpi di gesso sulla lavagna? Sa tanto di quella che Hobsbawm denunciava come “una serie di pratiche governate da un rituale di natura simbolica, che cercano di inculcare certi valori e norme comportamentali per ripetizione, insinuando automaticamente una continuità col passato”.

Dialetto istituzionale

Ma una lingua viva non è un rituale promosso dalle istituzioni (le istituzioni possono studiare una lingua, ed è bene che lo facciano, ma non propagandarla: lo sa bene il nostro Centro di dialettologia, con buona pace dei suoi detrattori; che sono poi in parte gli stessi che si spacciano ora per veri difensori del dialetto). Il dialetto ticinese gode comunque di buona salute rispetto a molti dialetti di area italofona. E se un giorno dovesse sparire, sarà perché la composizione sociale è cambiata in modo tale da renderlo obsoleto: questa, in realtà, è la paura nostalgica sulla quale incassano voti certi reazionari. Ma anche il greco classico (anch’esso in realtà un coacervo di dialetti) a un certo punto scomparve: la storia non si blocca di certo con l’imbalsamazione linguistica.

E poi, che dialetto si può mai insegnare, a scuola? Impossibile indovinare una didattica che sposi tutte le differenze fra un paesino e l’altro, se non creando un dialetto ‘della ferrovia’. Cioè inventato, appunto. A differenza di quello, vivo e vivente, che si impara solo tenendo le orecchie bene aperte e parlando col prossimo.

Facciano dunque attenzione, i benintenzionati che supportano certi progetti pensando forse che “tanto male non fanno”. È chiaro che in Ticino, come altrove, populismi sempre più forti brandiscono l’arma del dialetto solo per consolidare il fronte di un presunto patriottismo. Ma il patriottismo – ce l’hanno insegnato Samuel Johnson e lo Stanley Kubrick di ‘Orizzonti di gloria’– è “l’ultimo rifugio delle canaglie”.

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