Commento

La Bce rimane interventista

27 ottobre 2017
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La Banca centrale europea aveva tempo fino alla fine dell’anno per rivedere la sua politica monetaria ultraespansiva, ma il presidente Mario Draghi ha annunciato già ieri che poco o nulla cambierà con l’inizio del 2018. Gli aquisti di titoli pubblici e privati sul mercato secondario, che caratterizza il Quantitative easing all’europea, rimarranno, anche se il volume mensile scenderà dagli attuali 60 miliardi di euro ai 30 miliardi per i primi nove mesi fino a settembre del prossimo anno. Di fatto si tratta di una proroga della misura straordinaria. Come sempre il board della Banca centrale europea si è riservato mano libera per tornare sui propri passi nel caso ci fosse ancora bisogno di maggiore iniezione di liquidità. Inoltre, l’Eurotower reinvestirà il ricavato dei bond che giungono a maturazione “per un periodo esteso di tempo successivamente alla fine” del programma di acquisto di asset. Anche il rialzo dei tassi è stato rinviato ben oltre la fine del Quantitative easing facendo intendere che l’interventismo della Bce sui mercati finanziari non si arresterà di colpo.

L’obiettivo dichiarato di un tasso d’inflazione vicino al 2% per l’insieme dell’economia dell’eurozona non è stato ancora raggiunto. E segnali sbagliati al mercato potrebbero contribuire a rafforzare la moneta unica nei confronti delle principali valute, vanificando la debole ripresa in corso. Per usare le parole di Mario Draghi, “da un lato l’espansione economica in atto induce a ritenere che l’inflazione evolverà gradualmente verso livelli coerenti con il nostro obiettivo, dall’altro lato tale espansione deve ancora tradursi in misura sufficiente in una più vigorosa dinamica dell’inflazione”. Traduzione: la ripresa c’è ma l’inflazione non si è ancora manifestata e non capiamo bene perché. Sappiamo però che l’inflazione prima o poi arriverà, quindi insistiamo con una politica monetaria espansiva nella speranza che ciò accada. In sostanza il Consiglio direttivo della Bce ha dato altro tempo ai governi che detengono l’altra leva della politica economica: quella fiscale.

Gli acquisti dei titoli del debito pubblico hanno sì calmierato i differenziali di rendimento (il famoso spread) tra quelli dei Paesi più virtuosi e quelli che lo sono meno, diminuendo i costi di finanziamento, ma è mancata una politica di sviluppo. I governi negli ultimi dieci anni si sono concentrati a curare i buchi nei bilanci pubblici ma hanno dimenticato di creare le premesse per rilanciare in modo duraturo occupazione e redditi utilizzando i margini – molto stretti a dir la verità – a loro disposizione. I nuovi posti di lavoro creati in questi anni nelle principali economie europee sono generalmente più precari e peggio pagati, soprattutto nei Paesi dell’Europa meridionale. E con redditi calanti e prospettive occupazionali incerte, non si creano di certo le premesse per un dinamismo tale da surriscaldare (l’inflazione ne misura di fatto la temperatura) l’economia. Se a questo si aggiungono i processi di digitalizzazione e automazione che sono di per sé deflazionistici, un aumento dei prezzi è lungi dal presentarsi presto.

L’inflazione, quindi, non si è ancora manifestata perché la maggiore liquidità non è andata a beneficio delle famiglie e imprese attraverso il credito ma ha contribuito ad alimentare le dinamiche dei mercati finanziari sostenendo i prezzi delle obbligazioni, siano esse pubbliche o private. Ieri le Borse hanno chiuso tutte al rialzo perché gli operatori di mercato sono consapevoli che la manna della Bce, almeno nei prossimi mesi, non mancherà.

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