Commento

Sempre loro, sempre quelli

(PETER KLAUNZER)
4 luglio 2017
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Rieccoci all’amata erba che lo ha respinto a Stoccarda, per effetto delle incognite tipiche dei primi turni dopo una lunga sosta, e promosso a Halle, il proscenio scelto da Roger Federer per rimettersi in pari con la superficie che più lo esalta, alla vigilia del torneo che più ama: Wimbledon, dove il tempo si è fermato, dove il tennis profuma di antico e le tradizioni contano ancora qualcosa. Dal 2002, anno della bizzarra vittoria di Lleyton Hewitt, i Championship premiano esclusivamente una ristrettissima cerchia di fenomeni della racchetta: Federer ha vinto a sette riprese, Djokovic tre, Murray e Nadal due.

Church Road non è per tutti. È un feudo esclusivo assegnato d’ufficio a uno dei celeberrimi “Fab 4”. Agli Australian Open, sempre pensando al recente passato, hanno prevalso anche Agassi, Safin e Stan Wawrinka, che a Melbourne debuttò al ballo dei fenomeni al quale ha poi avuto accesso altre due volte. Dapprima al Roland Garros, imitato da Ferrero e Gaudio, non proprio delle comparse ma neppure nomi di primo piano, poi agli Us Open, vinti anche da Del Potro e Cilic. Insomma, qualche intruso ogni tanto fa capolino, ma non sulla leggendaria erba di Londra, che ai campioni che la calpestano impone che abbiano requisiti esclusivi, rari.

Ecco perché, in modo oseremmo dire naturale, Roger Federer nel giardino di casa veste legittimamente i panni del favorito: per quei sette trionfi, per le dieci finali raggiunte. E anche perché prima di chiamarsi fuori per preparare una seconda parte di stagione che ha dichiarato di volere “epica”, ha convertito in oro tutto quello che ha toccato: Australian Open, Indian Wells e Miami.

Melbourne e l’agognato Slam numero 18 non furono un episodio isolato. Altri successi, ha mietuto, e altri ne ha messi nel mirino. È carico, in fiducia e in palla. È favorito, nonostante l’età. Nonostante non vi vinca dal 2012. A Londra diventa scontato puntare su di lui, ma è in ottima compagnia.

Protagonista di una primavera da pazzi culminata con il decimo trionfo a Parigi (doppia cifra, roba da marziani), a Nadal i panni del favorito in senso assoluto stanno comunque un po’ larghi, per quella non ideale propensione all’erba che ne fa il numero uno sul rosso ma non il più forte sul verde smunto, per quanto superficie domata a due riprese, nel 2008 e 2010. Come Roger, è tornato da lontano. Nel novero dei favoriti entra di diritto, anzi di prepotenza. Tecnicamente, però, qualcosa concede. E sull’erba non gioca da due anni, limite non trascurabile.

Quanto a Djokovic e Murray, basti dire che sono i vincitori delle ultime quattro edizioni, di cinque delle ultime sei. Ancorché vittime dei rispettivi cali di tensione, i conti si faranno anche con loro. Anche perché il serbo è atteso a una reazione che presto o tardi arriverà, mentre lo scozzese davanti al pubblico amico è abituato a fare bene. Prova ne sia che ha vinto nel 2013 e che un anno fa, e in sette delle ultime edizioni, è stato almeno semifinalista.

Insomma, dallo stretto novero dei quattro fenomeni citati non si esce. Non a Wimbledon, che ha leggi e tradizioni proprie. Mal si vede come possano essere infrante da un protagonista a sorpresa. All’orizzonte non se ne stagliano, di degni. Fossimo altrove, si potrebbe anche buttare là qualche nome: Raonic, Zverev, Thiem, lo stesso Wawrinka. Ma non sull’erba. Non nel giardino di casa di Federer, violato solo da chi ha dimostrato negli anni di avere i requisiti per interromperne l’egemonia: uno a scelta tra Nadal, Murray e Djokovic. Sempre loro, sempre quelli.

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