Commento

Quel retrogusto un po' amaro

1 aprile 2017
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Sarà pure difficile convivere con quel senso d’incompiutezza. Ampiamente comprensibile e del resto anche legittimo, visto che la stagione del Lugano s’interrompe sul più bello. Senza alcun demerito. A tre minuscoli passi da quella che sarebbe stata la sua seconda finale di fila. Negatagli, nemmeno a farlo apposta, da quello stesso Berna che gli sbarrò la strada verso il titolo dodici mesi prima.
Quella stagione, in fondo, a questa un po’ vi assomiglia. Foss’anche soltanto perché già l’anno scorso, in corso d’opera, Shedden dovette subentrare in fretta e furia a Fischer, mentre stavolta è toccato a Ireland assumere il ruolo dello stesso Shedden. Dev’essere che alla Resega c’è una specie di passione nel creare dei problemi per poi provare a risolverli. Ad ogni modo, con risultati davvero entusiasmanti: per due volte di seguito, infatti, i bianconeri chiudono tra le migliori quattro squadre del campionato, al termine di esercizi piuttosto turbolenti. E non è cosa da poco, se si considera che, prima del marzo di un anno fa, il Lugano non vinceva una serie di playoff – che fosse una – addirittura da dieci stagioni. In altre parole, non si può certo affermare che il trend non sia positivo.
Ciò che serve al Lugano, ora, è un po’ di stabilità. E non può non passare dall’elaborazione di un nuovo progetto, sviluppato sull’arco di più stagioni. Riprendendo quell’idea avviata dalla gestione Fischer e che poi s’è bruscamente interrotta. Resta però da capire in quale direzione intendano muoversi i vertici della società per costruire la squadra del futuro, alla scadenza del paio di giorni che si sono accordati prima di presentare pubblicamente il bilancio della stagione.

Traghettatore a chi?
Sbagliare è umano? Perseverare pure, il più delle volte. Alla Resega, tuttavia, si è evitato di farlo. Pur se è tutto da provare che fosse un errore lasciare la squadra a Doug Shedden dopo la finale dell’aprile scorso. Sia come sia, pure un po’ inspiegabilmente, con il passare dei mesi il focoso coach dell’Ontario si è lasciato sfuggire la situazione di mano, e al secondo grido d’allarme è stato buttato giù dal treno in corsa.
A quel punto, dopo un isteria autunnale che, in fin dei conti, oggi può tranquillamente apparire ingiustificata, neppure il più ottimista tra i tifosi avrebbe immaginato che il Lugano non solo sarebbe arrivato a tre passettini dalla seconda finale consecutiva, ma più semplicemente che l’ingaggio di Greg Ireland potesse smuovere le acque al punto tale da rigenerarle. E invece è proprio così che è andata. A riprova del fatto che nell’hockey la regular season è fatta sì di classifiche e di obiettivi, ma è pure il momento in cui l’allenatore si prende tutto il tempo necessario per costruire la squadra migliore possibile in vista dell’unico, vero traguardo della stagione: le finali.
Arrivato in punta di piedi per vestire i panni del traghettatore, nel poco tempo a sua disposizione Ireland si è trasformato nel salvatore della patria. A metà tra il professore e il coach, ha saputo ridare smalto al (sostanzialmente) medesimo gruppo che dodici mesi prima contese al solito Berna il titolo svizzero, e ci è riuscito sistemando sì la difesa, ma pure ridando ai giocatori quella coesione, quella fiducia e quel coraggio che sembravano smarriti, mettendo in pista una squadra che sapesse giocare con disciplina ed emozioni. Qualità, quelle di Ireland, che si fanno prima a perdere che a incontrare. E il Lugano, nella sua analisi postseason, farebbe bene a tenerne conto.

Il peccato originale
Di errori in questi anni ce ne sono stati, questo è fuor di dubbio. La decisione più difficile da capire? Il non aver voluto puntare su uno ‘sniper’ straniero che potesse sostituire Pettersson, da affiancare al genio di un Klasen che scorer non è, ma che sa gestire il puck in spazi ridottissimi. Dato per assodato che l’ingaggio di Zackrisson fosse eredità dell’era ‘Fischi’, a conti fatti il Lugano si è ritrovato con un secondo svedese dalle caratteristiche simili a quelle di Martensson. Contando Lapierre, dei cinque stranieri ‘post Sondell’ ben tre sono centri di ruolo: avesse avuto uno svizzero con mani e visione davvero buone, Ireland avrebbe potuto far senza un Martensson a dir poco impalpabile, liberando dello spazio per l’eventuale straniero in più da ingaggiare in ottica playoff (ciò che molti s’aspettavano e, invece, mai successe). In verità, la soluzione con la ‘elle’ maiuscola il Lugano ce l’aveva: accelerare l’arrivo alla Resega di quel Luca Cunti che attorno a Natale aveva già firmato fino al 2019. Un anticipo che – lo scrisse lo stesso Lugano in un comunicato stampa a inizio gennaio – non si fece poiché la società ritenne «inaccettabili» le condizioni poste dallo Zurigo, ovvero il divieto per l’ex attaccante dei Lions di giocare contro la sua ex squadra nel finale di stagione, playoff inclusi. Però, dopo aver buttato fuori lo Zsc nei quarti, in semifinale uno come Cunti avrebbe senz’altro fatto comodo. Anche se – e Martensson (tanto per fare un nome inflazionato) insegna – quando compri un giocatore sai ciò che vale sulla carta, non quanto alla fine renderà. E per sapere quanto l’estro di un Luca Cunti possa pesare sul gioco del Lugano basterà pazientare solo qualche mese.

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