Commento

Cercasi ‘normalità’ monetaria

15 marzo 2017
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La scorsa settimana il programma di allentamento quantitativo della Banca centrale europea ha compiuto due anni. L’istituto di Francoforte in questo periodo ha acquistato titoli del debito pubblico dei Paesi dell’eurozona sul mercato secondario e in seguito ha esteso gli acquisti – sempre attraverso le singole banche centrali dei Paesi membri che fanno parte del cosiddetto ‘eurosistema’ – anche ai titoli corporate, ovvero le obbligazioni emesse da società quotate. Nel complesso la Bce ha in totale titoli di Stato per 1’412 miliardi di euro di cui 339 miliardi in Bund tedeschi, 269 in titoli francesi e 234 miliardi di Buoni del Tesoro poliennali italiani.
Il programma di quantitative easing terminerà alla fine dell’anno ma lo stesso Mario Draghi ha già annunciato che è sempre possibile un suo prolungamento, se le condizioni di salute (ancora cagionevoli) dell’economia europea dovessero richiederlo. In sostanza, le attese per un rialzo dei tassi d’interesse – almeno nell’eurozona – sono molto deboli.
Non è così dall’altra parte dell’Atlantico dove questa sera – a meno di clamorosi dietrofront – la Federal Reserve dovrebbe annunciare un terzo rialzo dei tassi guida in 14 mesi: dall’attuale 0,75% all’1%. Le ipotesi dell’inizio di una stretta, o meglio di un ritorno alla normalità monetaria, sono più di una a cominciare dalle dichiarazioni dei giorni scorsi, per una volta limpide, della presidente della Fed Janet Yellen: “Se non ci saranno impreviste incognite in agguato nell’economia, la Federal Reserve ha tutte le intenzioni di procedere senza indugi a un nuovo rialzo dei tassi d’interesse americani”.
L’inflazione ‘core’ (l’indice dei prezzi al consumo depurato dall’andamento dei valori più volatili di materie prime e beni agricoli) negli Usa è salita fino all’1,7%. Quella ‘non core’ è ormai al 2,5%. A questo si aggiunge un tasso di disoccupazione in calo e all’orizzonte una politica fiscale di stampo reaganiano promessa da Donald Trump che dovrebbe ‘dopare’ la ripresa economica. Un’accelerazione che porterebbe fuori controllo il livello dei prezzi. Da qui la necessità di una stretta per ‘accompagnare’ la politica economica senza farla deragliare troppo dai binari di una crescita sostenibile.
Gli effetti di queste ipotesi si vedono già sul valore globale delle obbligazioni diminuito la scorsa settimana di 800 miliardi di dollari (da 46mila miliardi a 45’200). Gli operatori stanno di fatto anticipando quanto accadrà nei prossimi trimestri e si liberano di asset che, ai prezzi attuali, incorporano rendimenti troppo bassi e non aggiornati al mutato scenario dei tassi d’interesse.
Nel mezzo della contesa tra i due Titani c’è la Bns che si appresta anch’essa (giovedì) a rivalutare la propria politica monetaria. Esperti ed analisti si attendono la conferma dell’attuale orientamento, ma c’è chi ipotizza che presto i tassi sul franco potrebbero scendere ulteriormente (ora siamo al -0,75%). Le incertezze, soprattutto politiche, nella zona euro, sono notevoli. Come noto nella lotta contro un ulteriore rafforzamento del franco la Bns impiega due strumenti: gli interessi negativi e gli interventi diretti sui mercati valutari. Questi ultimi, in particolare, hanno gonfiato il bilancio dell’istituto di emissione che è ormai pari al Pil svizzero. Con l’estendersi degli interventi aumentano anche i rischi e le accuse – da parte statunitense – di essere un’economia manipolatrice dei cambi. L’aumento probabile dei tassi da parte della Fed non sarà comunque risolutore per la Bns. Un allentamento della tensione dovrebbe intervenire solamente se e quando la Bce abbandonerà la sua politica monetaria ultraespansiva. Non prestissimo, quindi.

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