Commento

Un Pd di uomini, mezzi uomini...

2 marzo 2017
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Uomini, mezz’uomini, ominicchi, quaquaraquà (e ce ne sarebbe un’altra che non si può scrivere). Le categorie in cui il don Mariano di Leonardo Sciascia suddivideva l’umanità potrebbero, senza offesa, calzare bene ai personaggi che hanno portato sulla scena la crisi, poi rottura, faida, fuoriuscita, scissione, del Partito democratico. Una recita grottesca di interesse inversamente proporzionale all’enfasi con cui è stata trattata dai giornali italiani, se non che il partito di cui si parla è quello che regge il governo di quel Paese, e che il suo stato confusionale si iscrive nella crisi delle sinistre di tutta Europa.
Nello specifico, la battaglia condotta da e contro Matteo Renzi ha rivelato un fondo di malafede e di pochezza politica imbarazzanti. Forse è un segno dei tempi: con i partiti ridotti a comitati elettorali, è inevitabile che il confronto si riduca all’espressione di gradimento del leader del momento, e che dallo spessore politico del leader dipenda il livello del confronto. In questo caso bassissimo. E ad abbassarlo ulteriormente contribuiscono i competitor “interni” che in cuor loro rimpiangono di non essere Grillo…
Ma va pur ricordato che Renzi non è sceso da un’astronave: ha vinto le primarie per la segreteria, ha ricevuto dal proprio stesso partito il via libera per far fuori Enrico Letta, ha portato comunque Mattarella al Quirinale con i voti dello stesso Pd che aveva appena affondato Prodi.
Si noti che stiamo parlando soltanto di democristiani, cosicché qualcuno dirà: ma dov’è qui la sinistra? La domanda giusta sarebbe: dov’era quando è stato concepito il Pd? Oppure: chi erano gli ex comunisti che vi si sono accomodati col fare di chi comunque la sa più lunga? Sono forse gli stessi che il 4 dicembre scorso (battuto Renzi al referendum) si sono presi la rivincita?
Il fatto è che il Pd, al contrario di quanto hanno propagandato gli spin doctor veltroniani e ‘Repubblica’, non è stato una felice sintesi di “tradizione socialdemocratica e cattolicesimo sociale”. È stato bensì un incauto tentativo di ignorare la storia e di cambiarne il corso alterando il significato delle parole che la raccontano. Operazione inimmaginabile altrove: non in Germania, dove Spd e Cdu-Csu possono allearsi ma non confondersi; né in Francia, né in Spagna.
Ma è pur vero che dappertutto, e in ciò l’Italia non fa eccezione, la sinistra arranca e se si trova al governo è solo perché si appoggia su forze che le sono estranee o persino opposte (Syriza in Grecia guida un esecutivo con i nazionalisti giusto un po’ meno a destra di Alba Dorata). Da sola non ce la fa più. Ma soprattutto non ce la fa più a essere sinistra: è passata dal progetto di cambiamento della società, alla gestione – per conto terzi – dell’esistente.
Sarà, si dice talvolta, l’onda lunga della storia, la fine del comunismo e il deserto ideale che ne ha preso il posto. O sarà piuttosto che la sinistra stessa (non quella, irrilevante, affetta da radicalismo narcisista) convertendosi al dogma mercatista ha smarrito tutto di sé, fuorché il nome.
Tanto che la sua ragione sociale – la lotta alle diseguaglianze economiche e sociali che sono il vero virus di cui morranno le democrazie – le è stata scippata da forze che ne hanno fatto una rivendicazione nazionalista, barbara, fascista. Anzi, no, non le è stata rubata, ma essa stessa l’ha abbandonata come un cagnolino sull’autostrada, e chi l’ha raccolta ne ha fatto un trofeo.
Davvero, dunque, conta il nome del prossimo segretario del Pd? O dell’ennesimo, futile, partitino che nasce dall’ennesima scissione?

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