Commento

Un anno nel segno di Putin e Trump

28 dicembre 2016
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Chiuso nel segno dell’ennesima strage islamista, il 2016 – tra i tanti modi per farlo – può forse essere ricordato come l’anno di Vladimir Putin (e Aleppo) e di Donald Trump (e la Brexit). L’anno in cui una nuova forma di autoritarismo ha soppiantato nella prassi e nell’immaginario globale il primato delle stanche, screditate democrazie occidentali.
Praticata nella sua forma più “muscolare” dal presidente russo, e prefigurandosi cialtrona nell’attitudine del nuovo presidente statunitense, questa nuova verticalizzazione del potere pare destinata a completarsi con la definitiva riduzione dei meccanismi decisionali e dei sistemi di rappresentazione delle democrazie a mero passaggio formale (ben più di quanto siano già ora). Una delegittimazione che ha nel dominio del sistema finanziario l’origine, e nelle politiche assertive dei due presidenti citati – con il concorso dei movimenti populisti nazionali – i principali beneficiari politici.
Campioni di questa trasformazione (o ritorno, se guardiamo a certe epoche del secolo passato) Putin e Trump sono riusciti ad accreditarsi come interpreti più credibili (e dunque risolutori) delle tensioni che scavalcano da tempo i confini nazionali e le “classi”.
Il primo, sfruttando il ripiegamento del blocco euroatlantico, non solo ha acquisito un indiscutibile vantaggio sui teatri di guerra “disertati” da Washing-ton e dai suoi alleati europei, ma sta anche riuscendo a imporsi in un confronto schiettamente ideologico, promuovendo (con argomenti che la realtà non si stanca di fornirgli) la narrazione del declino dell’Occidente e di conseguenza della sua plausibilità quale modello universale, vuoi economico, sociale e di norme democratiche.
Il secondo ha fatto di questa crisi economica, sociale e valoriale – di cui è figlio e beneficiario – l’ascensore per il vertice del potere. Carburante della sua macchina di successo (sua nel senso che Trump ne è l’espressione massima, ma vale per tutti i suoi imitatori, o ispiratori, delle marche europee) sono un incapace malcontento e una stolida rabbia anti-sistema, che nel voto sulla Brexit ha avuto l’espressione sinora più tonda.
Ad entrambi la strada è stata spianata dall’inconsistenza e dalle contraddizioni delle élite istituzionali, politiche e culturali (quanti “clerici hanno tradito”…), che hanno trascinato nel disdoro e nel discredito non solo le istituzioni che rappresentano, ma persino le ragioni storiche e i valori fondanti di processi che avevano una ragione d’essere nel riscatto dalle catastrofi belliche degli imperialismi, dei nazionalismi e delle ideologie del Novecento (si pensi solo all’Unione europea).
Una strada che non si sa dove condurrà, benché lo si possa temere, ma sulla quale sono già in moto personaggi, movimenti e scadenze che potrebbero rivelarsi cruciali, mostrare il volto che ha oggi quel “nuovo” tanto reclamato. Le elezioni tedesche e quelle francesi, per limitarci alla piccola Europa.
Una strada, infine, che attraversa un territorio incognito, nel quale potrebbero perdersi, in forma di tragedia, forme di convivenza che credevamo consolidate. Questo territorio sono la dimensione epocale delle migrazioni (energia allo stato puro, che distrugge chi non la sa impiegare) e un revanscismo islamista – la sola ideologia universale rimasta, parrebbe – il cui nichilismo è per ora un’arma invincibile.
Questo lo scenario di cui si pasce l’autoritarismo di Putin, di Trump, e dei loro epigoni; e nelle loro figure si proiettano frustrazioni e aspettative di milioni di persone. La “cura” peggiore del male.

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