Commento

Un’Italia senza guida

6 dicembre 2016
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A Matteo Renzi è riuscito ciò che neppure con Silvio Berlusconi era accaduto: la sua tronfia vacuità gli ha inimicato non solo l’opposizione ma anche una vasta componente della propria parte, procurandogli la clamorosa sconfessione referendaria. Ciò che cercava ha trovato. Ma non è sulla sua sorte che l’Italia oggi deve interrogarsi. Pur lasciando da parte il luogo comune secondo cui stiamo parlando di un Paese irriformabile (con tutto che la realtà induce spesso a pensarlo), la prima considerazione sull’esito del voto riguarda proprio la profonda contraddizione di una collettività politica che da decenni reclama una grande rifondazione e tuttavia non è capace di dar corso neppure alla più modesta riforma (in questo caso bocciata in maggioranza da elettori che neppure sommariamente ne conoscevano i contenuti). Non ha guide che la orientino, questo è il fatto, e puntualmente il rituale democratico, come la botte, dà il vino che ha. La seconda considerazione, e ora la più urgente, verte sulla gestione e l’uscita dalla crisi aperta dalle doverose dimissioni di Renzi. Se è comprensibile che i vincitori di domenica reclamino le elezioni anticipate, ciò non significa che queste siano alla portata, semmai fossero opportune. Intanto perché sulla nuova legge elettorale (oltretutto concepita in vista della nuova configurazione di un Senato non elettivo) deve ancora esprimersi la Corte costituzionale, e poi perché le urla delle ultime ore esprimono sì il ludibrio per Renzi, ma servono anche a mascherare le incertezze sulla propria forza, nutrite dagli stessi capipopolo che si sono intestati la vittoria. I fascioleghisti e il decotto Berlusconi sanno bene di non essere maggioranza; mentre i grillini, i soli che avrebbero concrete possibilità di vincere le elezioni con il doppio turno introdotto dalla nuova legge elettorale, devono rifare i conti, essendo tra coloro che ne hanno contestato la costituzionalità, reclamando un ricorso al proporzionale. E poiché sono ignoranti di storia, toccherà ricordare loro che, vigendo il sistema proporzionale, nemmeno la Democrazia cristiana all’apice della gloria poté governare senza cercare (talvolta innominabili) appoggi qua e là. Del Partito democratico, morto con il suo Sansone, il meno che si possa dire è che per onestà dovrebbe assumersi le colpe che Renzi ha preso su di sé, immediatamente dopo il voto. L’irresponsabilità del partito di maggioranza relativa, incapace di produrre una riforma o quantomeno una condotta condivisa, sono sotto gli occhi di tutti. Frammentato in potentati locali o individuali che più nulla hanno a che fare con una tradizione di cui pure si pretende erede, il Pd ha scialato e disperso la fiducia che una gran parte di italiani gli aveva accordato per fare un’altra Italia da quella corrotta da Berlusconi. Aver ridotto il referendum a una resa dei conti interna gli ha meritato il discredito di cui pagherà lo scotto. In questo scenario, al presidente Mattarella tocca un ruolo delicatissimo. All’interpretazione del significato politico del voto ha già provveduto Renzi, a Mattarella ora il compito di rispettare l’espressione degli elettori e guidarne le conseguenze. C’è un Paese lacerato, dove la diversità delle posizioni genera reciproco disprezzo, e che deve tuttavia rispondere del proprio stato non solo a se stesso, ma anche alle capitali con le quali condivide sorti, più o meno, comuni. Si può cioè pensare ogni male dell’Unione europea, ma non si possono ignorare le apprensioni generate non solo dalla interruzione dell’esperienza di governo di Renzi, ma dalla plausibile prospettiva di vedere al suo posto qualche avatar prodotto dalla Casaleggio e associati. Al laconico Mattarella occorrerà un miracolo, far vincere il suo sussurro sul frastuono di un “vaffa” eretto a ideologia.

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