Commento

La rivoluzione silenziosa

24 novembre 2016
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Il progresso tecnologico non ha avuto un’evoluzione lineare e continua, ma ha conosciuto strappi più o meno rapidi, con conseguenze anche violente sulle società in cui si è concretizzato. Basti pensare alla prima rivoluzione industriale (l’invenzione della macchina a vapore), che stravolse l’ordine socio-economico di fine ’700, trasformando nel giro di pochi decenni un’economia prevalentemente agricola e commerciale, in una manifatturiera. Nell’Inghilterra dell’epoca migliaia di contadini e braccianti furono di colpo trasformati in operai. L’impatto fu catastrofico dal punto di vista sociale. La nascente borghesia industriale acquistò un peso economico e politico mai visto prima. Gli esclusi dal nuovo sistema economico e dalla nuova organizzazione del lavoro si unirono in un movimento di protesta che portò a un tentativo insurrezionale, noto come ‘luddismo’. Gli ex lavoratori tessili facevano a pezzi i telai meccanici. Negli oltre duecento anni di storia industriale le innovazioni sono state all’ordine del giorno. L’avvento successivo della ferrovia, che accorciò le distanze tra le città, dell’elettricità poi e dell’elettronica e dell’informatica alla fine del secolo scorso, ci hanno trasportato velocemente all’era della connessione e della digitalizzazione. Tanto che gli economisti identificano i processi di cambiamento attuali con il nome di ‘quarta rivoluzione industriale’. E secondo il premio Nobel per l’economia Michael Spence, negli scorsi giorni a Lugano, siamo solo all’inizio di un processo che potrebbe sconvolgere – al pari della prima rivoluzione industriale – il panorama socio-economico del prossimo decennio. I posti di lavoro che andranno in fumo saranno quasi certamente superiori a quanti la futura tecnologia ne creerà. Negli ultimi venti anni la rivoluzione digitale (dall’avvento del web alla connettività ovunque, fino all’internet delle cose e alla robotica) ha cambiato a una velocità impressionante e radicalmente ogni settore economico e il modo di fare innovazione. Per inquadrare meglio la portata di questo sconvolgimento epocale, basti ricordare che i nuovi modelli di business digitali sono la ragione per cui poco più della metà delle aziende presenti nel 2000 nella classifica di Fortune 500 (le imprese con maggior valore al mondo) sono state soppiantate dai giganti del cosiddetto web 2.0. Pensiamo soltanto all’applicazione ‘Uber’, che in molti Paesi sta mettendo in discussione la stessa esistenza dei tradizionali servizi di taxi; o al mondo del turismo: airbnb.com e booking.com stanno di fatto soppiantando le vecchie abitudini di prenotazione di una stanza d’albergo; oppure al mondo dell’e-commerce, che ha rivoluzionato il commercio al dettaglio. La robotizzazione dei processi manifatturieri, ma anche l’avvento dell’intelligenza artificiale (macchine che si autocorreggono e imparano dagli errori) renderanno superflui molti mestieri attuali. Alcune stime di autorevoli ‘think tank’ (il World economic forum, per esempio) quantificano in 5 milioni i posti di lavoro che verranno distrutti entro il 2020 nei soli Paesi industrializzati e in un 40% i mestieri che entro il prossimo decennio saranno ormai obsoleti. E sempre citando Spence, quando una tecnologia ne soppianta un’altra, non si torna più indietro. La questione diventa quindi politica. Non si può immaginare che tutti in futuro saranno ingegneri provetti, informatici o bioscienziati per sperare di potersela cavare in un mondo dominato da macchine e algoritmi. Si rischiano fratture sociali simili e per certi versi più gravi di quelle di fine ’700. All’orizzonte non si vedono ingenui Ned Ludd, ma pericolosi pifferai magici.

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