Commento

Reati e nomi, legge da cambiare

21 ottobre 2016
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Visti i tanti, troppi, casi di cronaca nera che si sono succeduti in questi giorni, è tornata puntuale anche la domanda sulle identità degli autori e delle vittime. ‘Ma perché non fate i nomi, nemmeno quelli dei carnefici?’. A chiedercelo è un lettore che, mettendo in fila anche solo gli ultimi due recenti casi, quello del docente e municipale di Canobbio arrestato per pedofilia e l’ultima vicenda di cronaca nera a cavallo fra Stabio e Rodero, si chiede appunto perché non si pubblichi l’identità delle persone coinvolte. Tanto più che basta incrociare un paio di dati e con un clic si scopre chi è il municipale di Canobbio che è anche docente di informatica alla scuola di Arti e mestieri. Stessa facilità nel sapere chi è la maestra uccisa a Stabio, per non parlare del di lei cognato, visto che lavora alla Supsi e ha pure partecipato a dei quiz della Tsi. Ebbene, in tutti questi casi sono la legge e la relativa giurisprudenza ad imporci, dati taluni elementi, di non pubblicare l’identità. Vediamo come mai. Per i pedofili il loro nome non può essere giustamente svelato quando farlo potrebbe portare a identificare vittime minorenni. Quindi, in simili casi, bisogna sempre andarci coi piedi di piombo. Fermo restando che per tutti, anche per il peggiore dei criminali, vale la presunzione di innocenza sino a sentenza cresciuta in giudicato. Resta il fatto che non solo al momento dell’apertura dell’inchiesta penale, ma anche durante il processo e persino al momento della condanna penale, se facendo il nome del pedofilo si potrebbe risalire a un minorenne abusato, il nome del colpevole non può – lo ribadiamo giustamente – essere fatto. Veniamo ora al secondo caso: quello della maestra. Qui la legge ci impedisce di divulgare l’identità o informazioni che consentano di identificare la vittima di un reato, se non abbiamo l’autorizzazione dei congiunti della vittima. Per poter fare il nome e poter pubblicare la sua immagine si dovrebbe ottenere in questo caso il consenso – che non abbiamo – della madre. In caso contrario chi lo pubblica rischia una causa per risarcimento danni e torto morale. Assurdo notare come a pochi metri dal nostro confine giornali e siti online italiani abbiano tranquillamente pubblicato da subito di tutto e di più, nomi e foto comprese. E noi, che siamo molto più prossimi al luogo del delitto, restiamo con le mani legate. Terza fattispecie: il cognato. Qui vale per ora la presunzione di innocenza. È comunque vero che per lui il nostro margine di manovra è più ampio. Ma sui due piedi, quando l’inchiesta è ancora alle prime battute, di solito si è tendenzialmente più prudenti. Per ora non abbiamo fatto il suo nome e non abbiamo pubblicato la sua foto, nemmeno oscurata. Ma abbiamo riportato diversi elementi della sua vita ancora accessibili in rete. Se invece l’autore fosse un personaggio pubblico, anche per molto meno, il suo nome lo avremmo già pubblicato. Tutto questo succede perché negli scorsi anni sono state approvate leggi a protezione della sfera privata di minorenni e delle vittime in genere. Comunque, mentre noi abbiamo limiti e paletti, sui social (che pure noi consultiamo) si comunica di tutto e di più e si può leggere senza filtri. E l’opinione pubblica capisce sempre meno come mai in rete i privati possano comunicare liberamente, generalità di vittime e autori di reato compresi, mentre i mass media viaggiano a una velocità più lenta. Il motivo è appunto legale. Da parte nostra non c’è certamente nessuna volontà di censurare o nascondere. Cambiare la legge? Auspicabile.

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