Commento

La ‘crisi’ migratoria è una clava in mano agli Orban di mezza Europa

5 ottobre 2016
|

Quel poco che è mancato a Viktor Orban per vincere il referendum-sfida all’Unione europea è ciò su cui le esauste democrazie europee dovrebbero riflettere. Benché infatti non abbia ottenuto il plebiscito che aveva sollecitato su un tema sensibile come quello dell’immigrazione, non si può ignorare che il seguito di cui Orban gode è pressocché immutato. Mentre la sua battaglia fa da esempio, rafforzandola, a quella di tutte le destre populiste d’Europa, siano esse all’opposizione o al governo. Una politica che sta già producendo effetti anche concreti su scala sovranazionale, se si pensa a come il boicottaggio del cosiddetto “gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), associato comunque all’inerzia e alle ambiguità dei governi presunti rispettabili, ha di fatto compromesso l’applicazione dell’accordo europeo sulla ridistribuzione dei profughi tra i vari Paesi. Una politica determinata, ma ottusa per il modo che ha di affrontare in termini emergenziali (dunque come un evento temporaneo) un fenomeno invece strutturale destinato a durare per almeno una generazione. Ottusa, ma lucida, dato che sono appunto le emergenze a conferire ai governi poteri di eccezione, sciolti dai vincoli delle leggi ordinarie, talvolta persino dal diritto. Una lucidità, infine, politicamente cinica che fa della lotta contro i migranti lo strumento più efficace per consolidare, nelle sue varianti locali, un potere la cui natura autoritaria è ben manifesta. Cosa che probabilmente sfugge agli elettori che vedono e temono dall’accoglienza degli immigrati un attentato al proprio status sociale, e che sono disposti, per sventarlo, ad accettare la progressiva erosione dei diritti sociali e delle garanzie dello stato di diritto (da Budapest a Varsavia, per ora…). Orban, in altre parole, non è solo. E non è un accidente della Storia. La sua affermazione politica precede la cosiddetta “crisi dei migranti”, ed è andata crescendo con la progressiva perdita di slancio (ma sarebbe meglio dire di senso) di una Unione europea votata apparentemente ad altri obiettivi. In questo contesto, i continui richiami alle “identità” e ai “valori” minacciati dalla presunta “invasione” di migranti lungi dall’essere un’analisi attendibile di un drammatico mutamento in corso – dalla quale attendersi una visione coerente che sia di rimedio e progetto – sono la dettatura di parole d’ordine ad uso di “uomini d’ordine”. Non è un caso – a parte la peculiarità polacca, che tuttavia ne ricalca i modi – che il modello di governo più ambito dagli Orban di ogni ordine e spessore sia quello di Vladimir Putin. Si dirà: le identità travolte dalla globalizzazione, la sciagurata deriva mercantilista dell’Ue, la sfrontata ricchezza di pochissimi, la progressiva inaccessibilità di un benessere che da decenni era l’ideologia ufficiale di questa parte di mondo, il fallimento delle élite e la proterva autodifesa delle oligarchie, l’aggressività di un islam che sfrutta il vuoto lasciato dagli universalismi umanistici di cui era alimentato il secolo scorso. Si dirà, con buone ragioni, questo e altro per spiegare il credito accumulato, e ancora in fase di crescita, dai campioni del populismo europeo. Ma delle scelte andranno pur fatte: un secolo fa, complice la crisi catastrofica di un “ordine” su cui l’Europa si era retta a lungo, gli sconfitti e i rancorosi seguirono parole incendiarie che diedero fuoco al continente e al resto del mondo. Ricordarselo, oggi, non farà male.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔