Commento

Quello che i dati non dicono

31 agosto 2016
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A scadenze ormai mensili, che coincidono con la data di rilascio dei dati sulla disoccupazione, l’attenzione dell’opinione pubblica è sollecitata sulla veridicità o no del tasso dei senza lavoro e ci si divide tra chi prende per buone le cifre diffuse dalla Seco (la Segreteria di Stato per l’economia) e quelli che ‘tifano’ – perché a questo si è ridotto il dibattito politico – per quelli diffusi dall’Ufficio federale di statistica calcolati secondo i criteri dell’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro). Per prima cosa bisogna essere in chiaro, oltre che sulle modalità con cui si calcolano i due tassi, anche su come vengono individuati i disoccupati. La Seco all’inizio di ogni mese non fa altro che divulgare il numero di coloro che si sono registrati presso gli Uffici regionali di collocamento, senza un impiego e immediatamente collocabili (non tutti si iscrivono). Come è spiegato bene sul sito dell’Ustat (Ufficio cantonale di statistica) nella sezione ‘definizioni’, è irrilevante sapere se essi percepiscono un’indennità di disoccupazione o meno. Si è disoccupati in quanto iscritti a un Ufficio regionale di collocamento. Si precisa, inoltre, che questi dati non sono confrontabili con altre fonti statistiche per una sostanziale differenza nella definizione dei senza lavoro: economica per l’Ilo e tecnico-amministrativa per la Seco. Il dato Ilo è invece ricavato da una stima statistica calcolata in base a un sondaggio telefonico (prima sostanziale differenza), che amplia generalmente il potenziale bacino degli occupabili e quindi ‘corregge’ al rialzo il tasso di disoccupazione. La seconda differenza consiste nel fatto che l’Ilo considera disoccupate le persone in età compresa dai 15 ai 74 anni che rispondono contemporaneamente a tre condizioni: non erano occupate nel corso della settimana di rilevazione; hanno cercato attivamente un posto di lavoro nelle quattro settimane precedenti; erano disposte a iniziare subito un’attività lavorativa. Salta subito all’occhio un fattore distorsivo non da poco: l’età dei potenziali lavoratori. Generalmente tra i 15 e i 18 anni (ormai anche oltre questa età) si è nel pieno della formazione professionale; tra i 65 anni e i 74, invece, si dovrebbe essere al beneficio della pensione, di qualunque genere e non alla ricerca attiva di un’integrazione al reddito. Se così è, allora la politica dovrebbe interrogarsi a fondo e rispondere con proposte concrete a un crescente malessere sociale – di cui le statistiche solo in parte danno conto – fatto di una sensazione di precarietà sempre più diffusa, non solo tra i redditi più bassi. Non è per esempio tagliando le borse di studio o diminuendo le rendite pensionistiche (la riforma della previdenza 2020 questo è) o gli aiuti sociali che si affronta la situazione di disagio vissuta dalla popolazione più vulnerabile. Anzi, così si accentua sempre di più la perversa dinamica di insicurezza che alimenta le guerre tra poveri. La statistica elvetica, considerata ottima a livello internazionale, ogni anno diffonde anche la Rilevazione sulle forze lavoro in Svizzera (Rifos) che permette – proprio perché segue in modo rigoroso e scientifico le raccomandazioni prescritte dall’Ilo e da Eurostat – una comparazione con i dati Ocse e dell’Unione europea. Ebbene, anche in questo caso il tasso di disoccupazione svizzero (3,1% Seco; 4,3% Ilo) esce vincente rispetto alla media dei Paesi Ue (10,2%). Per rimanere al Ticino, alla fine di luglio il tasso Seco era del 3%, mentre quello Ilo (2o trimestre del 2016) era del 6,2%. In Lombardia, per esempio, il tasso di disoccupazione Ilo era invece del 7,2%. Dati veri o verosimili? Gli statistici, si sa, fotografano con nude cifre un preciso fenomeno economico o sociale. Gli strumenti per affrontarlo e risolverlo li ha la politica, non le ‘tifoserie’.

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