Commento

Storie di sport e di emozioni

22 agosto 2016
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«Se tornassi indietro riassegnerei l’Olimpiade a Rio», ha detto Thomas Bach. Il presidente del Comitato olimpico allude al successo della “prima” sudamericana, una scommessa vinta nonostante mille difficoltà, nonostante il Paese organizzatore soffra per gli effetti di una crisi politica ed economica che non ha pregiudicato né l’organizzazione né lo svolgimento di una manifestazione che ha chiuso i battenti con la cerimonia di chiusura, con tanto di sfilata delle variopinte rappresentative nazionali. Alla testa delle delegazioni si sono profilati nuovi alfieri, scelti tra freschi campioni olimpici e atleti che la storia dello sport già hanno segnato. La Svizzera ha designato Nino Schurter, premiandone la carriera prima dell’esito della corsa che lo ha visto trionfare ieri. Mai decisione fu più azzeccata. Un ulteriore motivo di soddisfazione per la delegazione rossocrociata, forte di sette medaglie, tre delle quali d’oro. Di che rincasare felici, realizzati. Consapevoli di aver centrato l’obiettivo di squadra, di essere addirittura andati oltre le attese. Benché, a ben vedere, vi fossero i margini per piazzare un paio di altri acuti, si pensi all’ippica dello sfortunato Guerdat, e alla scherma. Giù il sipario, quindi. Si guarda avanti, alla prossima edizione, che più diversa non potrebbe essere. Giacché dalle contraddizioni di Rio si passa alla modernità e all’opulenza di Tokyo. Più in linea con i canoni dello sport moderno, meno con lo spirito olimpico che sguazza in contesti meno inquadrati. Come Rio, una città che ha problemi e divisioni sociali, in cui la vita reale è proseguita, come se nulla fosse. Da qui, l’intuizione di Bach che parla di un riuscito confronto con la realtà, senza che questa sia stata mascherata, o celata dietro il velo della festa dello sport. Di che andarne fieri. Come delle immagini forti di un’Olimpiade che ha raccontato la favola di Rafaela Silva, la judoka che dalla favela di Cidade de Deus è arrivata fino al gradino più alto del podio olimpico. Gli ori di Michael Phelps, addirittura ventitré, consegnano lo Squalo di Baltimora alla leggenda, in cui è entrato, con la prepotenza che ne contraddistingue le prestazioni, anche Usain Bolt, fermo – si fa per dire – a otto. Storie di trionfi, di record, di velocità e resistenza, storie di sport. Che però, nel contesto olimpico, sa uscire dalle dinamiche da podio per consegnare alla memoria pagine intrise di romanticismo e buoni sentimenti. Come quella dello stesso Phelps e del ragazzo di Singapore che lo ha battuto nei 100 farfalla, che ha spiegato che fu proprio l’asso americano a ispirarlo e a spingerlo al nuoto. A Rio ha affrontato e battuto il suo idolo, col quale si fece fotografare, bambino felice di posare con il suo eroe. Inconsapevole di un destino che lo avrebbe portato, anni dopo, a superarlo. Una bella storia l’ha scritta anche Fabian Cancellara, campione sul viale del tramonto, con la fine della carriera già annunciata, bersagliato dalla sfortuna negli ultimi mesi, come se dovesse pagare lo scotto dei successi che lo hanno consacrato fenomeno della bicicletta, infine ripagato con l’oro olimpico nello scenario che celebra lo sport e i suo interpreti più illustri. Bellissimo. Commovente. È uno dei tre ori rossocrociati, quello di Spartacus. Quello un po’ meno atteso, forse, tuttavia bello e pesante come quello del “quattro senza” e del citato Schurter, anch’egli consegnato alla storia dello sport rossocrociato e mondiale. Già, perché la dimensione dell’Olimpiade è planetaria, e tanto deve bastare a fare di ogni vincitore un profilo di rara e invidiabile bravura. A prescindere dalla disciplina praticata.

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