Commento

Come fermare i turisti del jihad

15 luglio 2016
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Chi vuole partire per il jihad può essere arrestato all’aeroporto? Si può venire condannati per un’intenzione? Dove mettere il confine tra sicurezza nazionale e libertà personale? Sono alcuni interrogativi che fanno da trama di fondo al processo in corso davanti al Tribunale penale federale di Bellinzona. In aula Ahmed, un 26enne svizzero-libanese, nato e cresciuto a Winterthur, dove ha fatto tutte le scuole, si è formato come verniciatore, lavorando poi a singhiozzo. È stato arrestato il 7 aprile 2015 all’aeroporto di Zurigo mentre stava imbarcandosi per Istanbul, da dove (per la Procura) avrebbe raggiunto la Siria per combattere con l’Isis. I suoi genitori – e la compagna incinta di due mesi – pensavano andasse in Germania. Ma chi è veramente Ahmed? Dal processo è emersa una figura debole, facilmente influenzabile, un giovane mai veramente integrato in Svizzera, dove frequentava amici turchi o della moschea An’Nur a Winterthur (più volte citata come luogo di radicalizzazione). Un giovane in grosse difficoltà economiche, che voleva lavorare, ma non riusciva a tenere un posto. A guardarlo da vicino (mi precedeva ai controlli di polizia in tribunale) non sembra, in verità, un pericoloso terrorista, forse per il suo sguardo perso, tenuto basso. Eppure la polizia parla di raccapriccianti immagini di propaganda, esecuzioni di gruppo per mano dell’Isis, postate dall’imputato (che nega). Così menti fragili verrebbero plasmate dalla lunga mano dell’Isis che le abitua ad una continua e quotidiana violenza. Altro punto cruciale della sua personalità e tutto da valutare per la Corte: sebbene cresciuto in Svizzera, Ahmed sognava di fare il martire. La sua spiegazione: ‘Ero pronto a morire in Siria, su un’ambulanza, salvando persone sotto le bombe’. Martire crocerossino dall’altra parte del mondo, lasciando in Svizzera la compagna incinta di due mesi. A noi sembra una bella incongruenza! Tante domande in questo processo sono rimaste senza risposta, ma si può intuire su quale terreno l’Isis coltiva i suoi fedeli all’estero, anche nella piccola Svizzera. Chi abbiamo di fronte? Una innocente vittima del sistema o un caso sociale, dove l’integrazione è fallita, dove la frustrazione ha aperto la porta all’Isis. Interessante la riflessione dell’accusa, che ha voluto evitare il carcere all’imputato, per non favorire la sua radicalizzazione e fare un piacere all’Isis. Ma quali valori darà quest’uomo a suo figlio appena nato? Pugno duro o sostegno sociale? In Austria, un presunto jihadista è stato condannato qualche mese fa dal tribunale di Graz a otto anni di carcere perché, secondo il giudice, voleva unirsi all’Isis. Mentre in Svizzera si sta cercando di capire se basta, per una condanna, che qualcuno fisicamente si presenti all’aeroporto con lo scopo di andare in una zona di combattimenti. Lo deciderà la sentenza del Tpf attesa per oggi. In Svizzera si contano 76 ‘turisti del jihad’, pronti a morire per lo Stato Islamico: residenti partiti per combattere in Siria e Iraq. Secondo le informazioni dei Servizi segreti elvetici (Sic) una dozzina di loro ha perso la vita sul campo. Altrettanti sono verosimilmente rientrati in Svizzera, dove la Procura federale ha avviato procedimenti. In un difficile equilibrismo tra sicurezza nazionale e rispetto della libertà personale, ci si chiede come impedire, a titolo preventivo, la partenza dei simpatizzanti del jihad, come avviene in Francia, Germania e Italia. Il governo elvetico ha incaricato il Dipartimento di giustizia e polizia di elaborare un progetto preliminare per evitare le partenze. Tra le misure: obbligo di presentarsi a un posto di polizia, ritiro dei documenti d’identità e sorveglianza.

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