Commento

Sanità, tra limiti e silenzi

10 maggio 2016
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Il caso Rey pone almeno due interrogativi. Primo: il clima di ‘omertà’ che può portare un gruppo di persone, dall’infermiere fino ai vertici di una clinica, a passare sotto silenzio, per mesi, un fatto grave come uno scambio di pazienti e un’amputazione in sala operatoria. Secondo: l’atteggiamento del dottor Piercarlo Rey (anticipato ieri da ‘laRegione’) che – seppur sospeso dal Dipartimento sanità e socialità (per due anni) – poco dopo era di nuovo in sala per sostenere una sua paziente, compiendo pure un atto medico. Iniziamo dal secondo. Ieri il legale del medico, l’avvocato Tuto Rossi, ha confermato quanto abbiamo scritto, ossia che il dottor Rey era lì dove non doveva (e non poteva) essere. Un atto umanitario verso una paziente in difficoltà, dice il legale e noi ci crediamo. Ma ci chiediamo pure: dove sta il rispetto della decisione di un’autorità, se un medico sospeso lo ritroviamo ancora in sala? Ci sono deroghe possibili? E allora spiegateci quali, perché le regole devono valere per tutti. Inoltre: chi sostituiva il dottor Rey (scelto da quest’ultimo) non era in grado di portare a termine l’intervento senza l’aiuto del collega sospeso? Rey si è autosegnalato e, secondo il suo legale, aveva il consenso del medico della clinica. Bene, bravi. Ma non è lui che ha revocato al dottor Rey l’autorizzazione ad esercitare, bensì il Dipartimento sanità e socialità. Dovevano semmai chiedere il permesso al medico cantonale. Sul nuovo caso, la Commissione di vigilanza sanitaria ha aperto un altro (è il secondo nel giro di 12 mesi) procedimento amministrativo che è in fase di istruzione. A detta del medico si è ancora trattato di un atto a fin di bene. Sì, perché già alla paziente, a cui ha amputato i seni per errore, il dottor Rey ha mentito per mesi (dice lui) a fin di bene (ci si può anche credere, ma non ci ha creduto la Commissione), aspettando che fosse pronta per incassare la dura verità. Il dottor Rey è arrivato a falsificare il rapporto operatorio, lasciando fatturare alla paziente il costo dell’intervento sbagliato, inducendo il suo team di sala operatoria fino ai vertici della clinica a passare sotto silenzio un fatto così grave come uno scambio di pazienti in sala. Un errore che ha causato un danno grave a una persona e che la clinica – e chi ne era a conoscenza – era tenuta a segnalare alle autorità. Ma tutto ciò non è avvenuto. È inquietante. Perché un infermiere non si sente libero di segnalare un errore? Forse perché teme di sentirsi dire stai zitto o sei fuori? È solo un’ipotesi. Facciamone un’altra: forse, in alcune strutture chi porta tanti pazienti, e viene definito una macchina da soldi perché fa girare le sale operatorie come porte girevoli, diventa intoccabile o quasi? Noi possiamo solo formulare ipotesi, ma di mezzo vi sono i pazienti e la loro salute. Il caso Rey ci permette comunque di leggere una certa realtà sanitaria che lascia perplessi. Infatti la Commissione di vigilanza, che è un organo super partes, analizzando (la prima volta) il caso Rey, le sue responsabilità e il contesto in cui è maturato il grave errore, arriva a paragonare i chirurghi ad acrobati che lavorano senza rete di protezione, come vi spieghiamo alle pagine 2 e 3. Questo significa forse che stiamo sacrificando la sicurezza sull’altare del dio denaro? Che avremo sempre più strutture che assomigliano a fabbriche, con sale che non possono restare vuote o ferme, dove i tempi morti vanno ridotti all’osso e la macchina deve girare, girare e rendere? Speriamo vivamente di no.

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