Commento

La Fed stringe moderatamente

17 dicembre 2015
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La decisione della Fed era attesa dal 2006, da prima dell’inizio della grande crisi finanziaria. Alla fine il comitato di politica monetaria – all’unanimità – ha deciso per un aumento moderato del costo del denaro portando i tassi di riferimento allo 0,5%. Sono stati tra lo zero e lo 0,25% dal dicembre 2008, l’autunno nero seguito al crollo della Lehman Brothers. Il segnale di ieri è un modo, anche simbolico, per annunciare che la crisi è ormai alle spalle. Comunque i tassi rimangono ancora molto bassi. Un fattore che non dovrebbe pregiudicare la ripresa economica statunitense. Una scelta che avrà comunque delle conseguenze per prima cosa sui mercati finanziari. Ieri Wall Street non ha però reagito con isteria, segno che la mossa della Fed era stata digerita da tempo. Da quando si sta perseguendo la cosiddetta Zirp (‘Zero interest rate policy’, la politica monetaria dei tassi prossimi allo zero) è cresciuta a dismisura l’esposizione debitoria espressa in dollari, soprattutto da parte delle economie emergenti. Stando ai dati della Banca dei regolamenti internazionali, negli ultimi cinque anni il debito dei Paesi emergenti (Brics) è di fatto raddoppiato: un balzo di 4’500 miliardi di dollari. Ogni sussulto al rialzo rischia, quindi, di soffocare i grandi conglomerati aziendali cinesi, russi o i giganti delle materie prime brasiliani (Petrobras e Vale su tutti) indebitati in dollari. Ogni svalutazione delle rispettive valute nazionali minaccia di rendere il loro debito sempre più pesante con conseguenti turbolenze finanziarie globali. Già nel maggio di due anni fa, il solo tam-tam insistente sul cosiddetto ‘tapering’ (il rallentamento degli acquisti di obbligazioni pubbliche e private da parte della Federal Reserve, allora presieduta da Ben Bernanke) generò incertezza sui mercati finanziari asiatici spingendo al ribasso le rispettive valute nazionali con relativa fuoriuscita di liquidità da queste economie. Denaro attratto dalla calamita del dollaro. La mossa della Fed potrebbe accelerare questa emorragia. Tutto dipenderà dal ritmo con cui si procederà alla ‘normalizzazione’ della politica monetaria nel corso del prossimo anno. Janet Yellen, la presidente della Federal Reserve, ha fatto sapere che nei prossimi mesi si terrà comunque conto degli indicatori macroeconomici come il livello di disoccupazione e quello dei prezzi. In questi anni l’economia statunitense, molto dinamica e positiva, se vista con gli occhi di un europeo, ha assorbito sì parte della disoccupazione (ora al 5%) creata con la crisi del 2008, ma i prezzi (leggasi inflazione) sono rimasti molto stabili. Una crescita senza inflazione, anche se bassa, non ha permesso ai salari di aumentare quanto dovevano. Il denaro facile si è riversato semplicemente nei mercati finanziari. Gli indici azionari, sottotono nelle ultime settimane, sono comunque a livelli storicamente elevati. La ripresa economica, insomma, non è stata così vigorosa come immaginato e non si vuole impedire che perda ulteriore slancio. Nel comunicato finale, la Fed sottolinea come “l’orientamento della politica monetaria resta accomodante”, che nuovi rialzi dei tassi saranno “graduali” e i Fed Funds “probabilmente resteranno per un certo periodo al di sotto del livello di lungo termine”. L’inflazione è prevista al rialzo verso l’obiettivo del 2%. Questo dovrebbe avvenire nel medio termine “dopo che gli effetti transitori del calo dei prezzi energetici si saranno dissipati”. Una previsione molto ottimistica.

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