Commento

Il volto greco dell’Europa

27 gennaio 2015
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Atene è Atene, non facciamo confusione. In altre parole: c’è da stare all’erta quando la generalità dei commenti è unanime su un evento. Il “segnale all’Europa” di cui parlano tutti per significare la schiacciante vittoria di Syriza in Grecia è certamente una lettura fondata, ma non esauriente. Anzi, rischia di essere fuorviante, poiché accomuna commenti che hanno fonti persino opposte o conflittuali.

Se per l’estrema destra di Le Pen, l’estrema Lega di Salvini, il nazionalismo insulare di Farage, l’alternativa ispanica di Podemos, il folk rosso di Vendola, per posati commentatori dell’establishment, se per tutti quello di domenica è stato un ultimatum all’Europa per interposta Grecia, forse significa che l’immagine ha prevalso sul significato, o che qualcuno – noi compresi – non ha capito qualcosa.

Per chiarirci: segnale all’Europa era già stato chiamato il successo del Front National alle ultime elezioni europee; lo stesso si pretende che sia, nella prospera Germania, il consenso crescente per Alternative für Deutschland; e via protestando. Ma davvero si vogliono accomunare Marine Le Pen e Alexis Tsipras, e Pegida e Matteo Salvini, e Podemos? Le condizioni della Francia, della Spagna, della Germania, a quelle della Grecia? Se sì, allora, a rigor di logica, bisognerebbe parlare non di segnale all’Europa, ma di segnale dell’Europa, cioè di una comunità politica ancora in costruzione, che si definisce per strappi, slanci, contraddizioni. Ma no, non è così. La realtà è un’altra.

Intanto la specificità greca distingue il voto di Atene da quello di qualsiasi altro in Europa. Parliamo di un Paese che si era indebitato sino al collo con la compiacente collaborazione di istituti bancari stranieri (di quegli stessi Stati campioni di rigore budgetario e di rispettabilità internazionale), che ha conosciuto una effimera stagione di spensieratezza (olimpiadi, successi sportivi, alcuni fasulli), che ha manomesso i propri libri contabili, entrando nell’euro in condizioni che ad altri non sarebbero state concesse. Il voto di domenica e il sentimento di cui Alexis Tsipras è più idoneo interprete sembrano dunque non soltanto il sacrosanto desiderio di levarsi dal collo un cappio che stava finendo di soffocare un intero Paese, ma anche di liberarsi di una espiazione a cui si era stati condannati per responsabilità altrui.

In secondo luogo – e questo sì può essere interpretato come un fatto rivelatore di scala europea, assimilabile a quello di movimenti e partiti anche di opposta ispirazione ideologica – il successo di Syriza sembra confermare una mutazione generale della politica, delle sue forme e della capacità di rappresentare la società da cui emana.

Una politica “nuova” che ha attecchito in un contesto che ha visto andare in crisi finale forme di rappresentanza consolidate almeno dal secondo dopoguerra. I partiti, forse corrotti da una troppo lunga consuetudine di potere, prima che dai soldi, hanno smarrito anche il ruolo decisivo e utile che la democrazia assegna loro. Ma sono stati anche travolti da forme di comunicazione che, apparentemente, rendono superflui i filtri tra elettore, legislatore, esecutivo; non meno che dall’affermarsi di una ideologia che ha assoggettato lo Stato, inteso come insieme degli interessi comuni, all’interesse di un capitale pervasivo e dominante.

Syriza non rivoluzionerà la Grecia, né l’Europa. Piuttosto, ha raccolto una responsabilità che altri avevano cercato di evitare. Altri pronti a dannarlo nel caso fallisse.

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