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Al mercato dei microchip, piccoli e fondamentali

L’Europa vuole produrne sempre di più

(Keystone)

Lo ha detto pochi giorni fa il presidente del consiglio Mario Draghi e lo ha poi ribadito l’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares: il mercato dei microchip diventerà meno «global» e più «local». Sono i piccoli «cervelli» hi-tech che fanno funzionare computer, smartphone, tablet, elettrodomestici e centraline delle auto, solo per citare alcuni esempi. Fino a «ieri» — prima della guerra in Ucraina e del Covid-19 — venivano prodotti, venduti, comprati e lavorati in un mercato turbo-globale, dalla Malesia alla Sicilia, dal Texas all’Irlanda. Adesso, tra il boom della domanda post lockdown e le tensioni geopolitiche sull’offerta, sono diventati sempre più preziosi e il mercato resta naturalmente mondiale ma si scopre più frazionato.

Pil, il 2% in meno

«Una priorità è aumentare la produzione di microchip in Europa. Un recente studio del Fondo monetario internazionale ha stimato che l’anno scorso le strozzature nelle catene del valore sono costate all’area euro circa il 2% di Pil», ha detto Draghi alla Camera. E ha aggiunto: «La carenza di semiconduttori, essenziali per molte industrie strategiche come i mezzi di trasporto, i macchinari industriali, la difesa, è stata particolarmente dannosa». In questo campo, quindi, «l’ambizione europea è aumentare la propria quota di mercato dal 10 al 20% della produzione globale di chip entro il 2030». Fermo restando, ha comunque spiegato il premier, che è necessario «rimanere aperti anche agli investimenti esteri».

Le imprese

E le aziende che comprano chip per vendere auto o frigoriferi? «Entro 3-4 anni avremo fornitori locali, in Europa e negli Usa, per i semiconduttori», ha detto giovedì Carlos Tavares, durante un incontro con i giornalisti a Torino. «Stiamo lavorando con fornitori Tier 1, 2 e 3 per avere entro il 2024 tre piattaforme software che completeranno le piattaforme Bev, che saranno 4. Quindi avremo semiconduttori sviluppati direttamente con fornitori Tier 2 e 3», ha spiegato. Questioni tecniche a parte, la direzione è chiara per tutti.

Le mosse americane

Negli Stati Uniti il Senato ha appena approvato un disegno di legge per fornire 52 miliardi di dollari di sussidi per la produzione di chip. E questa non è certo l’unica mossa né l’unico maxi stanziamento di Washington sul tema. In Europa c’è, per esempio, il «Chips Act» della Commissione Ue, che si propone di mobilitare oltre 43 miliardi di euro tra fondi pubblici e privati per la produzione nel continente. Tutti i grandi Stati accelerano quindi sui semiconduttori «home made». Fatti in casa o dagli alleati. Come è successo sull’asse atlantico Europa-Stati Uniti, con i maxi investimenti annunciati dall’americana Intel nel Vecchio Continente: il colosso hi tech parte con un investimento di 17 miliardi di euro per due impianti in Germania per la fabbricazione di semiconduttori che si stima possano dare lavoro a 10 mila persone, ma in totale ne stanzierà 80 per crescere in Europa entro il 2030. Tra i Paesi che Intel ha preso in considerazione per le sue fabbriche c’è anche l’Italia. Si parla di un impianto di assemblaggio. «Con un investimento potenziale fino a 4,5 miliardi di euro — ha spiegato il ceo Pat Gelsinger — questa fabbrica creerebbe circa 1.500 posti di lavoro per Intel più altri 3.500 posti di lavoro tra fornitori e partner, con operazioni da iniziare tra il 2025 e il 2027». In Italia, tuttavia, c’era chi sperava in qualcosa di più. Ma non c’è solo l’alleato americano. Il nostro «big» del settore — StMicroelectronics — è una multinazionale a controllo paritetico italo-francese che sta realizzando un maxi investimento nello stabilimento di Agrate, in Lombardia, per ampliare la produzione.

Sul versante russo, invece, il dipartimento del Tesoro statunitense ha annunciato nuove sanzioni su 21 società tecnologiche: una di queste è Mikron, la principale azienda nazionale di semiconduttori, responsabile di oltre il 50% delle esportazioni di Mosca nella microelettronica.

Il podio

Ma quali sono i Paesi in testa alla classifica dei produttori di chip? I primi tre — Cina, Taiwan e Corea del Sud — da soli realizzano più della metà di tutti i semiconduttori del mercato mondiale. Anche se, va aggiunto, non sono tutte locali le aziende produttrici: le grandi multinazionali occidentali infatti hanno spesso importanti stabilimenti in questi Paesi. E questo è solo uno dei motivi per cui non è immediato realizzare un «atlante» dei microchip. Un’altra ragione sta nell’essenza di questi micro-cervelli-hi tech: per realizzare un chip sono necessarie circa 500 operazioni su diversi strati, spesso portate a termine in più stabilimenti in diversi Paesi. Insomma, per quanto il settore possa andare in una direzione «local», l’aspetto «global» rimane un elemento fondamentale. Resta comunque da vedere se gli Stati Uniti e l’Europa riusciranno a invertire la tendenza che li ha visti passare dall’80% della produzione nel 1990 al 20% di adesso (dati di Boston consulting group e dell’associazione di settore).

Il mercato

Il mercato, intanto, continua a crescere, dai 422 miliardi di dollari del 2017 ai 466 del 2020 ai 639 del 2022 (dati Gartner). Se il trend prosegue, la stima è di mille miliardi di dollari nel 2030. La parte del leone, come prodotti finiti in cui vengono impiegati i semiconduttori, la fanno gli smartphone, i personal computer e i server, inclusi i grandi macchinari che custodiscono i dati. Dall’alta tecnologia dei microchip all’alta sensibilità dei dati, quindi. Preziosi i primi e preziosi i secondi.

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