Inchieste

Il rispetto dell'altro e la democrazia digitale

(© Ti-Press / Samuel Golay)
9 gennaio 2018
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di Andrea Ghiringhelli, storico

Il filosofo Arthur Schopenhauer non coltivava una fiducia spiccata nel genere umano: teneva sempre un’arma a portata di mano per far fronte ai malintenzionati, rifiutava di farsi radere dai barbieri per paura che gli tagliassero la gola e se qualcuno lo importunava troppo da vicino non esitava a passare alle vie di fatto. Una silloge di insulti, ricavata dalle sue carte, ha dato forma a un trattatello postumo sull’arte di insultare. Il filosofo riteneva che, per averla vinta su un interlocutore inattaccabile sul piano dialettico, vi fosse un unico perfido espediente: abbandonare il dibattito e passare all’insulto, perché una sola grossolanità ha la meglio su qualsiasi argomentazione. Al destinatario della parola ingiuriosa suggeriva l’impassibilità e l’indifferenza; meglio ancora: consigliava di evitare a priori qualsiasi discussione con i poco avveduti che parlano tanto per parlare.

Ho seguito il consiglio: considerato il successo dell’eloquenza volgare e la diffusione della grammatica populista, il suggerimento resta di stretta attualità ed è opportuno. Il volumetto di Schopenhauer l’ho adocchiato sullo scaffale quando – dopo alcuni sobri contributi a difesa dei diritti umani e dei migranti – un indomito drappello di anonimi frequentatori dei social, mi ha ritenuto, con sfoggio di colorite varianti linguistiche, un sospetto corruttore dell’amor di patria: qualcuno, con animo compassionevole, mi ha riconosciuto qualche merito trascorso, ma poi gli anni passano per tutti e la mente cede. Il florilegio di insulti non mi ha prostrato, perché la categoria degli stolti non soffre di estinzione e bisogna conviverci: inutile combatterla, meglio prendersi la libertà di ignorarla e attenersi ai saggi consigli del filosofo tedesco.

La democrazia tascabile

Sono tuttavia grato agli autori del turpiloquio digitale che, peraltro, è un esercizio assai diffuso e offre lo spunto per riflettere sui limiti della democrazia dei social, di quella “democrazia in rete” esaltata come la nuova frontiera che concede a ogni cittadino di dire la sua, in qualsiasi momento del giorno e della notte. L’immagine evocata è quella della democrazia pronta all’uso: è la democrazia “tascabile” dello smartphone, del tablet e dei social che ci portiamo ovunque, in ufficio, a casa, in treno, al bar, sull’autobus, perfino in bagno. Secondo gli entusiasti della materia, con la democrazia dei social i cittadini sono finalmente in grado di riprendere in mano il loro destino intervenendo direttamente sulle questioni di pubblico interesse. Se nella democrazia rappresentativa – dicono – i cittadini sono perlopiù soggetti passivi, che si mobilitano solo in occasione delle elezioni e di qualche votazione, con la rete le cose cambiano e il cittadino diventa protagonista attivo. Quindi – sempre secondo i cultori di internet – la rete sarebbe un fattore di maturazione civica assai utile alla rigenerazione di un modello consunto, sfiduciato da larga parte dei cittadini e malato di assenteismo; la democrazia dei social sarebbe il fronte avanzato della democrazia partecipativa: il cittadino interviene, dice la sua senza intermediari e agisce sul sistema politico.

È vera democrazia?

Ma è proprio così? Che la democrazia rappresentativa funzioni piuttosto male è assodato, che vi sia un bisogno diffuso di democrazia diretta pure, ma che i social costituiscano la soluzione di tutti i mali mi pare discutibile. Internet ha enormi meriti e tante virtù e ha cambiato il mondo: non si contano i trattati sull’argomento. Ma scorgo, da profano, qualche inconveniente. Al netto della constatazione irrefutabile che la libertà di opinione e di espressione – anche nell’ambito politico – è fortemente condizionata dai motori di ricerca, da algoritmi e protocolli vari, la cosiddetta democrazia dei post e dei blog parla un linguaggio non particolarmente raffinato e signorile. Una buona maggioranza dei commentatori che si esibiscono nella rete non contempla la capacità di ascoltare: afferma, ribadisce, asserisce, e non ascolta. La parola nuda e cruda sostituisce il pensiero articolato, lo slogan insolente e liquidatorio cancella il confronto e l’argomentazione rispettosa della diversa opinione. Siamo nell’ambito del populismo digitale e non di un autentico dialogo democratico.

La rete e lo sdoganamento del parlar volgare

Il sociologo Alessandro Dal Lago ha caratterizzato i commenti che ingombrano la rete con tre aggettivi: tangenziali, oppositivi e identitari. Mirabile sintesi la sua: i commenti sono in genere tangenziali perché il più delle volte non entrano nel merito, ma semplicemente i redattori approfittano dell’occasione per dichiarare categoricamente il loro convincimento e non ammettono contraddittorio; sono oppositivi perché attraverso la parola greve manifestano l’irriducibile dissenso in coda a un post, a un blog, a un articolo di giornale; sono identitari perché spesso, soprattutto quando di mezzo vi sono migranti e sicurezza, a tener banco ossessivamente è la difesa del Noi e i migranti diventano i responsabili dei nostri disagi e di ogni paura. È quello che chiamiamo il revanscismo del benessere: consiste nel deviare sui migranti la colpa dello sgretolamento del Welfare prodotto in realtà dal neoliberismo ad oltranza.

Questo modo di confutare non ammette il tempo del ragionamento e della discussione: al contrario esalta il disprezzo per qualsiasi argomentazione dialettica e promuove come risposta definitiva l’insulto, l’offesa personale, il dileggio, la trivialità e la parola truce. E quello che una volta era lo sproloquio circoscritto dal perimetro del bar, destinato magari a evaporare con i fumi dell’alcool, oggi ha la possibilità di fissarsi nel tempo, di essere diffuso e moltiplicato all’infinito. Il perfido espediente dell’insulto e della parola greve che tronca il dialogo ha permeato anche il linguaggio pubblico della politica: la volgarità espressiva, l’impudenza e la protervia sembrano quasi assumere il carattere della virtù. La vera discussione franca e aperta, l’argomentazione ragionata sorretta da un pensiero articolato sono ormai un’arte quasi perduta. Il venir meno dell’etica del rispetto, alla base della convivenza civile fra gli individui, si accompagna con l’abolizione della capacità di vergognarsi, ed è un problema serio, soprattutto nel linguaggio pubblico e in politica dove con la scomparsa del concetto di vergogna viene a cadere un meccanismo fondamentale di sicurezza sociale e la condanna netta dell’atto moralmente riprovevole. È questa la nuova frontiera della democrazia prefigurata dai social? Se così fosse, le premesse non mi paiono annunciare un futuro esaltante: accanto a indubbi vantaggi si registrano parecchie pecche.

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