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Il golpe che fece crollare l’Unione Sovietica

L’arrivo dei carri armati davanti al Cremlino, gli scontri, i giochi politici, il racconto, da dentro, di quel che accadde il 19 agosto del 1991 a Mosca

I militari contestati dai civili e un bus bruciato in strada per fermare l'avanzata (Keystone)

L’arrivo dei carri armati davanti al Cremlino, gli scontri, i giochi politici, il racconto, da dentro, di quel che accadde il 19 agosto del 1991 a Mosca

17 agosto 2021
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Mosca – Il rombo dei motori è sempre più forte. I carri armati stanno arrivando dal Leninskij prospekt per occupare il Cremlino e chiudere la piazza Rossa. Sono circa le 12.30 del 19 agosto 1991. Il terrore assale i presenti. Fuggiamo da piazza del Maneggio, teatro di manifestazioni oceaniche nei mesi precedenti. La maggior parte della gente si precipita in via Gorkij; noi entriamo nell’albergo Intourist e saliamo con l’ascensore all’ultimo piano per guardare dall’alto cosa sta succedendo.

Lentamente i tank avanzano parallelamente all’Aleksandrovskij Sad. Due o trecento moscoviti provano a fermarli, ostruendo la strada con dei filobus. Decine di giovani salgono sui tetti dei mezzi pubblici per gridare il loro sdegno. Hanno al braccio delle coccarde rosse e urlano disperatamente “il fascismo non passerà!”.

Alcuni ragazzi coraggiosi si mettono davanti ai tank come gli oppositori cinesi nelle celebri immagini girate solo due anni prima a Pechino, in piazza Tienanmen. È tutto inutile. Dopo un’ora i golpisti controllano, senza usare la forza, gli accessi al Cremlino. D’un tratto abbiamo la sensazione che, di lì a poco, avremmo vissuto la versione moscovita di “Praga 1968”. Ovunque, dalla fine della Seconda guerra mondiale, dove sono arrivati i militari dell’Armata Rossa, gli aneliti di libertà sono stati repressi. Il tentativo gorbacioviano di riformare l’Unione Sovietica e la “primavera” russa paiono ora giunti al capolinea.

Il mondo inizia così a osservare terrorizzato il dispiegamento a Mosca dei carri armati agli ordini dei golpisti vetero-comunisti, che hanno appena fatto prigioniero in Crimea il leader sovietico Michail Gorbaciov, ma non sono riusciti ad arrestare Boris Eltsin, il presidente della Federazione russa. La prima domanda, che ci frulla per la mente, è: sarebbe scoppiata adesso in Urss una guerra civile come in quei mesi in Jugoslavia? La seconda: chi avrebbe controllato l’arsenale nucleare della superpotenza comunista? Da poco più di un anno e mezzo il Muro di Berlino è crollato, ma l’Armata Rossa mantiene propri contingenti in mezzo Vecchio Continente.

Torniamo a casa sconsolati. La cosa sorprendente è che nei vari quartieri la vita quotidiana, al di fuori del centro cittadino, prosegue come se nulla fosse. Le strade sono piene di gente e i più se ne infischiano di quanto sta accadendo. È da tempo che la perestrojka (ricostruzione) gorbacioviana è entrata in crisi e non riesce a proseguire il suo tentativo di risvegliare l’Urss dal coma in cui la superpotenza è caduta per i troppi decenni senza riforme, per il ritardo tecnologico accumulato rispetto all’Occidente e per il fiatone dovuto alla corsa agli armamenti con gli Stati Uniti.

L’economia è ferma: quella catena di montaggio che è l’Urss, si è rotta. Ognuna delle 15 repubbliche che la compongono ha di fatto bloccato la messa in comune di quanto produce, conservando in mano un pezzo, ormai inutile, dell’enorme ingranaggio. La parola “defizit” è all’ordine del giorno e i negozi sono con gli scaffali vuoti, senza merce. Il mercato nero impera; il rublo è, in pratica, carta straccia.

Dopo decenni di repressione Michail Gorbaciov ha dato al popolo la libertà nel senso pieno della parola. Finalmente si può parlare liberamente in pubblico, non solo “in cucina”, come era un tempo. I dissidenti e i prigionieri politici sono liberi. Si torna a professare una religione senza paura, per la prima volta dal 1917. La “glasnost” (trasparenza) ha, però, risvegliato contemporaneamente i nazionalismi in un continente, dove vivono centinaia di etnie, diversissime tra loro. In Caucaso si registrano i primi spargimenti di sangue.

Stanco per i ritardi nell’applicazione del suo programma, Gorbaciov imprime una svolta conservatrice alla sua politica alla fine di dicembre ’90. I riformatori, che dal marzo ’85 dettano l’agenda, abbandonano la scena. Il loro posto è preso dai cosiddetti “falchi”. Il mondo si accorge del nuovo vento che soffia pochi giorni dopo, il 14 gennaio, a Vilnius, dove le unità anti-sommossa sovietiche sparano contro i nazionalisti lituani sotto alla torre della televisione. È una strage.

Nella primavera del ’91 la popolazione conferma la volontà di preservare l’Urss in un referendum, oceaniche sono alcune manifestazioni a Mosca e in giugno si elegge il primo presidente russo. Il doppio potere in Urss è ormai una realtà. Nel corso dei primi mesi del 1991 Gorbaciov prende, comunque, atto che alcune repubbliche sovietiche non ne vogliono più sapere di rimanere nell’Unione e prepara un nuovo Trattato, che avrebbe dovuto prendere il posto di quello fondativo del 1922. Appuntamento per la firma, con chi ci stava, è fissato per il 20 agosto a Mosca.

Il presidente sovietico non ha fatto, però, bene i conti, appunto con i “falchi”, capeggiati dal suo vice, Gennadij Janaev, la cui elezione è stata da lui imposta in dicembre. I golpisti vetero-comunisti, del “Comitato Gkcp”, sono in totale otto. Oltre a Janaev, il primo ministro Valentin Pavlov, il capo del Kgb (i Servizi segreti) Vladimir Krjuchkov, il ministro dell’Interno Boris Pugo, il ministro della Difesa Dmitrij Jazov, i capi dell’associazione delle Industrie e del sindacato dei contadini Aleksandr Tizjakov e Vasilij Starodubtsev, il rappresentante dell’apparato militare industriale Oleg Baklanov. Ufficialmente essi intervengono per garantire l’integrità e l’indipendenza del Paese. All’alba del 19, dopo aver isolato Gorbaciov in Crimea, dichiarano lo stato d’emergenza per sei mesi. Truppe vengono inviate in tutte le principali città del Paese. I putschisti riescono anche a impadronirsi dei codici del “bottone atomico” sovietico e, tanto per intimidire il mondo, autorizzano il lancio sperimentale di un missile intercontinentale.

Quella mattina del 19 agosto una telefonata, che ci annuncia il golpe, ci ha svegliati. La situazione appare subito confusa. Ci precipitiamo sul corso Kalinin (oggi Novyj Arbat), l’arteria che collega il Cremlino alla Casa bianca, il Soviet russo. Ovunque sono schierati in borghese uomini dei Servizi segreti. E’ facile riconoscerli: alcuni hanno il giornale in mano, altri fumano nervosamente. Tutti in inconfondibili impermeabili. Andiamo quindi alla piazza del Maneggio. Qui alcuni oratori democratici intrattengono i presenti: nessuno vuole il “ritorno ai gulag”. Dopo poco arrivano i carri armati e quasi tutti scappano. Nel pomeriggio facciamo un giro in taxi verso la periferia sud. A ogni incrocio strategico o edificio importante staziona un tank. “Hanno mandato – ci dice il nostro autista, con un passato nelle Forze armate da carrista, - i migliori reparti dell’Armata Rossa contro il popolo. Roba da matti!”.

Col passare delle ore i moscoviti apprendono che Boris Eltsin ha evitato l’arresto, ha tenuto un discorso su un carro armato – passato dalla parte dei democratici – e si è asserragliato dentro alla Casa Bianca. Al grido “resistere” migliaia di persone stanno accorrendo a difendere il primo presidente russo, democraticamente eletto in mille anni di storia. Radio “Eco di Mosca” informa la popolazione sugli eventi in corso.

Su alcuni circuiti televisivi internazionali girano, contemporaneamente, le immagini false di un tank in fiamme. Disinformazione e provocazione si rincorrono all’impazzata. Un caos infernale. Ma in città non vi sono stati scontri. In quelle stesse ore gli otto golpisti del “Comitato per lo stato di emergenza” organizzano una conferenza stampa alla “Novosti”. Appaiono incomprensibilmente indecisi. Il vicepresidente Janaev afferma che Gorbaciov sta male; gli tremano le mani. Si capisce subito che qualcosa non va e i democratici acquistano coraggio. E infatti il vice di Eltsin, Aleksandr Rutskoj, da buon generale, organizza la difesa della Casa bianca. Con lui sono passati i generali Gromov e Graciov. I paracadutisti del battaglione Tula, agli ordini del generale Lebed, danno una mano. Tutto il quartiere viene isolato e riempito di barricate. I deputati russi accorrono.

I golpisti non sono riusciti a sfruttare il fattore sorpresa. Si capisce subito che potranno vincere solo provocando uno spaventoso bagno di sangue. I militari spareranno contro la loro stessa gente? Questo il dubbio dei più. Ovunque la gente porta da mangiare ai giovani sui tank (in genere pane e burro); qualcuno infila dei fiori nei cannoni. “Abbiamo solo eseguito gli ordini”, si giustificano i soldati, tantissimi i ventenni fra loro, schierati con i putschisti. Inizia l’impasse. Di giorno la gente si accalca attorno al leader democratico; tanti i tricolori russi e le bandiere ucraine; molti sono i curiosi che passeggiano tra le barricate, mentre nel resto della città la vita prosegue tranquillamente. I pericoli vengono, però, con la notte: in genere al buio, il peso della coscienza si alleggerisce; si spara alle ombre.

E infatti una colonna di cinque autoblindo, svolgendo una ricognizione sul Sadovoe Koltso, rimane intrappolata in una barricata. Volano le bottiglie Molotov contro di loro, viene aperto il fuoco. Tre attivisti democratici muoiono. Mercoledì 21 agosto il Comitato degli otto, che pensava di prendere il potere senza che nessuno reagisse, si sfalda. I golpisti, tranne Pugo che si suicida, sono arrestati.

Gorbaciov viene liberato e torna a Mosca. I codici del “bottone atomico” gli vengono riconsegnati. Eltsin ottiene nelle febbrili giornate successive lo scioglimento del Partito comunista sovietico, mentre le repubbliche dichiarano la loro indipendenza dal Centro. Le statue dei bolscevichi vengono abbattute, mentre gli archivi sono spalancati. Le tre giornate, che hanno fatto tremare il mondo, entrano così nella storia, accorciando “il secolo breve”, come gli storici hanno definito il XX secolo, quello delle ideologie.

Trenta anni dopo, la Russia, ubriacata dalla propaganda nazionalista, fa finta di essersi dimenticata di quegli eventi. La classe politica, oggi al potere, guarda con nostalgia a quell’impero, sciolto nel ’91, alla superpotenza scomparsa. La narrativa ufficiale in auge dipinge quelle epiche giornate come la causa dei successivi sconvolgimenti socio-economici, che hanno caratterizzato gli anni Novanta. Ma, mai prima, uno Stato di quelle proporzioni – per di più immobile da decenni - era passato da un sistema comunista a uno di mercato.

La crisi ucraina, scoppiata nel 2014, ha invece ribadito che le scelte, anche dolorose, fatte da Boris Eltsin furono corrette. È venuto il momento di dargliene atto: nel 1991 “Corvo bianco”, come lo chiamavano i suoi sostenitori, evitò che l’Urss si trasformasse in un “Jugoslavia nucleare” e pose le fondamenta per la costruzione di uno stato democratico. Per la prima volta i russi erano cittadini liberi e non sudditi.