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Tutti contro tutti nel cuore dell’Africa

Armate di ribelli contro il presidente, saccheggi, stupri e sfollati in cerca di cibo. Nella Repubblica Centrafricana nessuno è al sicuro

(Filippo Rossi)

Armate di ribelli contro il presidente, saccheggi, stupri e sfollati in cerca di cibo. Nella Repubblica Centrafricana nessuno è al sicuro

3 marzo 2021
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Bangui (Repubblica Centrafricana). Il quartiere popolare Boing, alla periferia di Bangui, è nell’occhio del ciclone da quando i ribelli della Coalizione patriottica per il cambiamento (Cpc) – alleanza di vari gruppi armati ribelli creata dall’ex presidente François Bozizé - hanno provato ad attaccare la capitale della Repubblica Centrafricana (Rca) il 13 gennaio, senza successo. Come Boing, decine di altri quartieri considerati pro-Bozizé e vicini al suo partito Kwa na Kwa (Knk), hanno subito una forte repressione con raid, rapimenti ed esecuzioni sommarie da parte del governo. “Sono solo voci. Noi non sosteniamo nessun gruppo armato. Vedi dei ribelli qui?”, commenta il proprietario di un baretto del quartiere.

Dopo l’annuncio della Corte costituzionale di invalidare la candidatura di Bozizé alle elezioni presidenziali del 27 dicembre, il Paese è ricaduto nell’ennesima crisi. Bangui si è divisa più che mai. Le zone “pro-Bozizé” hanno boicottato le elezioni oppure votato il candidato scelto dal loro leader. Le elezioni sono state il pretesto per iniziare la ribellione. Dando il via a una nuova spirale infernale fatta di guerra e di massacri inutili di innocenti, in cui la popolazione civile è la maggiore vittima di una lotta fra politici e potenze internazionali per risorse, guadagni, potere. Il tutto inasprito da conflitti locali, etnici, fra pastori e sedentari o di stampo anche religioso. “È un conflitto asimmetrico” – commenta Rosaria Bruno, vicecapo dell’ufficio di coordinamento dell’assistenza umanitaria per le Nazioni Unite (Ocha) -“Il problema peggiore è la crisi, alimentare e sociale. Se circa due milioni di persone (quasi metà della popolazione) vive oggi una situazione di insicurezza alimentare, gli sfollati sono calcolati a più di 200 mila dopo la crisi. Molti si rifugiano da una quartiere all’altro solo per prevenzione e diffidenza nei vicini. Ci sono retaggi delle crisi precedenti”. I dati umanitari fanno spavento.

La crisi alimentare si fa ancora peggiore perché, se da un lato la gente non coltiva più nelle province per paura di essere uccisa, dall’altro la Cpc per  settimane ha tenuto in scacco il Paese bloccando la sua principale via di rifornimento che collega Bangui al porto di Douala, in Camerun. Ancora oggi la strada è bersaglio di imboscate da parte dei ribelli che fanno salire alle stelle i prezzi di alcuni alimenti base e rallentano l'arrivo degli aiuti umanitari. Chi è fortunato mangia una volta al giorno. La città, principale magazzino del paese, soffoca.

Prima regola, diffidare

Fra le case di questa periferia di Bangui spicca l’edificio arancione del partito Knk. Un soldato siede sulla strada con il suo kalashnikov sulle gambe: “Tutto è tranquillo”, ammette. Ma molti hanno paura di parlare. La diffidenza, a Boing, è di casa. A rendere tutto più sospetto è la vicinanza del quartiere situato all’estrema periferia della città, a soli cinque chilometri dal centro, dietro l’aeroporto internazionale e molto vicino a dove si dice siano appostati i ribelli che attorniano la capitale bloccandone i rifornimenti e fomentando una crisi umanitaria sempre più urgente. “Da quando hanno attaccato i ribelli, viviamo nell’insicurezza. È vero che sosteniamo Bozizé. Ma abbiamo paura, perché ora siamo diventati un bersaglio. I soldati sono entrati nelle case, hanno ucciso perfino un ragazzino solo perché portava i capelli lunghi. E per loro chi ha i capelli lunghi è un ribelle. Era innocente” spiega Rodri, 43 anni, commerciante di un negozietto più in giù sulla strada. A lui non interessa svelare il suo nome, smentendo le parole di chi dice il contrario. “Sosteniamo Bozizé” – ammette anche un fabbro in forma anonima –. “Qui tutti lo amano. Peccato che non si sia potuto candidare alle elezioni. Ha fatto buone cose per il paese. Ma siamo contro la violenza”.

In città l’esercito – le forze armate centrafricane (Faca) – ha stanziato un distaccamento, presidiando le strade sconnesse e sterrate che scorrono fra le abitazioni grigiastre costruite con un misto di sabbia e acqua. La gente ha paura, soprattutto quando, al calar della notte, scatta il coprifuoco. È lì che l’esercito può agire indisturbato, aggirandosi per le vie dei quartieri, entrando nelle case ed eliminando ogni sospettato di collaborare con quella coalizione fatta di ribelli che prima si combattevano fra loro e che ora si sono uniti per spodestare il regime del presidente eletto Faustin Archange Touadéra. È il caos. Nessuno sa chi sta con chi. Il governo ha paura. Le voci di infiltrazioni di ribelli in città sono molte.

Le violenze sulle donne

Dopo l’assalto del 13 gennaio, respinto dalle Faca e i loro partner (russi, ruandesi e i caschi blu della missione Onu Minusca) – che pattugliano le strade della capitale costantemente – l’assedio di Bangui si è allentato, ma nelle province la situazione resta preoccupante. I soldati sono accusati di violare i diritti umani. La Minusca di connivenza con i ribelli. I ribelli, invece, assaltano improvvisamente: non solo imboscate ai soldati, ma raid nei villaggi, spesso per mangiare, ma lasciandosi alle spalle distruzione e violenze indicibili. Così molti sfollati dormono all’addiaccio, dentro cattedrali e scuole.

A soli 20 chilometri dalla capitale, nel centro abitato di Liton, alla fine di gennaio, 2’500 persone si sono rifugiate negli edifici della scuola Felix Houphouet Boigny, scappando da quattro villaggi situati a nemmeno 10 chilometri, dopo le infiltrazioni e la violenza seminata dai gruppi ribelli. Le classi sono diventate dormitori. In 15 metri quadrati dormono in 120. Chi non ha spazio trova rifugio sotto gli alberi. Le donne lavano e stendono i panni sul prato brullo. Gli anziani ascoltano su una radiolina le ultime notizie sul conflitto. Una ragazza osserva, persa, la monotonia e la tristezza della situazione e della sua gente. In un’aula, donne e uomini aspettano seduti, immobili, che succeda qualcosa. “Siamo in più di 100 in quest’aula. Mangiamo un pugno di riso a testa al giorno. Non possiamo tornare alle nostre case. I ribelli distruggono tutto e se la prendono solo con le donne. Le stuprano. Molte ragazze non hanno nemmeno il coraggio di farsi curare” commenta Christine, 40 indicando l’unica cosa che le rimane, il vestito giallo che ha addosso.

Si avvicina Jasmine, 13 anni appena. Silenziosa, lo sguardo penetrante, lascia trasparire la tristezza e il trauma nei suoi occhi. Senza paura, racconta: “Mentre fuggivo, i ribelli mi hanno rapita. Mi hanno deflorata. Erano molti sopra di me mentre mi stupravano. Ho perso molto sangue. C’erano anche altre ragazze, così quando ci hanno lasciate sole un attimo siamo riuscite a fuggire”. E se molte donne come Jasmine sono vittime di un’arma di guerra distruttiva come lo stupro di massa (secondo una statistica Onu, nel Paese uno ogni 20 minuti circa), anche gli uomini sono vittima dei ribelli, presi in ostaggio, picchiati e obbligati a lavorare per loro. E spesso, possono essere accusati dalla comunità di collaborazionisti. La gente non ha pietà. Alphonse, commerciante di Bondoko, non mangia da tempo proprio per questo. Nessuno lo vuole aiutare. “Mi hanno rapito per 4 giorni. Ero obbligato a rimanere con loro perché ero il commerciante del villaggio e volevano il cibo. Sono dei bambini che li hanno condotti da me. Erano loro stessi ostaggi e per liberarli mi sono consegnato. Non avevo scelta. Ma è la verità”. Riuscito a scappare, non ha trovato l’accoglienza che si aspettava. Nessuno gli crede. Supplica una manciata di riso. Disperato.

Sebbene siano sfollati, le persone rifugiate nella scuola hanno mantenuto una gerarchia sociale. Alcuni giovani volontari hanno creato un gruppo di autodifesa. Partono alla ricerca dei ribelli comunicando le loro posizioni ai capi villaggio per poi avvertire i soldati. Un lavoro rischioso. Maurice, 35 anni, contadino e commerciante, il capo di uno dei tre gruppi di autodifesa, dice che “è pericoloso. Troviamo però il coraggio in nome della pace e per proteggere le nostre famiglie”.

Lo spettro di una catastrofe umana è dietro l’angolo, negletta. Dimenticata. E ora niente sembra migliorare. Rimane solo la speranza di una popolazione che non perde la dignità e la voglia di combattere chiedendo di mangiare non una, ma due volte al giorno.

Le alleanze

‘Giochi di potere con Mosca e Parigi’

“È un cerchio infernale. Questi gruppi armati si combattevano fra loro fino a qualche anno fa. Addirittura combattevano contro François Bozizé quando era presidente. Ora sono tutti alleati. È una lotta di potere senza ritegno”, parola di Gervais Lakosso, presidente del gruppo di lavoro sulla crisi centrafricana Gtsc.

L’ennesima crisi è scoppiata il 27 dicembre, durante le elezioni che hanno visto il presidente uscente Faustin Archange Touadéra riconfermato. Dopo che l’ex presidente Bozizé, spodestato nel 2013 dalla coalizione Seleka (oggi sua alleata) ha visto la candidatura invalidata dalla Corte costituzionale, ha riunito una serie di gruppi armati sotto il nome di Coalizione patriottica per il cambiamento (Cpc) cominciando una ribellione con l’obiettivo di spodestare il regime in carica, eletto per la prima volta democraticamente nel 2016 dopo una fase di transazione.

“Non ci sono molte differenze con le crisi precedenti. Gli attori sono sempre gli stessi ma cambiano campo in base ai loro interessi. I politici vogliono prendere il potere con la forza. E se Bozizé avesse fatto le cose secondo le regole, avrebbe dato filo da torcere a Tuadéra perché gode ancora di grande popolarità. Ma pensava di poter fare quello che voleva” continua Lakosso.

La ribellione del Cpc, per molti ben armata e con soldati professionisti – spesso provenienti da Ciad, Sudan o Camerun – è riuscita a mettere una forte pressione sulle forze governative (Faca). Secondo alcuni dati, il governo controllerebbe oggi solo il 35% del territorio. Tesi smentita dal governo. Sebbene le Faca siano supportate da forze russe, ruandesi e dalla missione dei caschi blu dell’Onu Minusca, non riescono a far fronte agli attacchi avversari per via di un embargo sulle armi imposto dal 2013 dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Quest’anno, la Russia, che ha firmato un accordo di difesa con Bangui nel 2016 ha votato per togliere l’embargo, mozione però respinta dal veto della Francia. Facendo reagire la ministra della difesa Marie Noelle Koyara: “Vogliono un genocidio centrafricano?”

Il veto francese, insieme ad altri eventi, ha indotto molti nel governo Touadéra e nella società civile, a pensare che Parigi sia dietro alla Cpc di Bozizé. Non ci sono però le prove schiaccianti. Dopo l’elezione di Touadéra nel 2016, la Francia (intervenuta nel 2014 con la missione militare Sangaris per scacciare la coalizione Seleka da Bangui) ha deciso di ritirare il suo contingente militare. Il governo si è rivolto quindi a Mosca, che ha risposto firmando prontamente inviando istruttori militari e soldati e, ultimamente, anche la famigerata compagnia privata Wagner (miliziani spietati). Trovare una soluzione è per ora la cosa che sembra più complicata. Il governo sembra determinato a disfarsi dei ribelli. “Ancora dialogo? Ne abbiamo fatti più di 30 in questo Paese. Sono sempre le stesse persone. È troppo facile uccidere e poi chiedere scusa. La gente deve rispondere dei propri atti”.

Per le strade, le manifestazioni contro il dialogo si susseguono. Le bandierine russe hanno preso il posto di quelle francesi e niet è ormai nel gergo della popolazione. Il sostegno concreto della Russia è apprezzato. Dall’altro lato, attori della società civile prediligono una strada locale: “Vogliamo un dialogo centrafricano, non della comunità internazionale – conclude fermo Lassoko –. Noi soli sappiamo come gestire i nostri problemi. I tempi sono cambiati. Non siamo più 5 milioni di analfabeti”.