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L’ideologia, perché?

Quando anche i migliori (Ezio Mauro, per dirne uno) sembrano guardare con leggero sospetto a una presunta rinascita delle ideologie, c’è qualcosa che non va, e non è cosa da poco. In effetti, il tema non è di certo quello dell’eccesso di ideali, di valori e di visioni dell’uomo e del mondo – comunque e dovunque declinati, beninteso – ma piuttosto quello della loro obliterazione. La progettualità (in politica, ma anche altrove) si esaurisce così in una rincorsa alle sollecitazioni dell’immediatezza, in un perenne e un po’ isterico inseguirsi di cose che nascono e muoiono nel volgere di una moda, senza gerarchie e senza priorità. Non è – come sembrerebbe a prima vista – una questione di passo, di ritmo; in effetti, l’apparente frenetica dinamica del mondo non ha una direzione e si esaurisce in uno spiraliforme ripiegarsi su se stessa, come se il mero movimento e il suo rumore assordante fossero la ragione e lo scopo ultimo di quella dinamica, e non invece un percorso, un obiettivo.

La politica è il luogo in cui si colgono con maggiore evidenza gli effetti del tramonto delle ideologie. Basti pensare, ad esempio, a quanto sta avvenendo nel cosiddetto campo progressista italiano: un partito-contenitore senza identità, che riunisce di tutto un po’ nel tentativo fallimentare di "intercettare" tutte (ma proprio tutte) le istanze dell’elettorato, liquidando senza pietà i patrimoni ideali delle sue varie componenti; poi microformazioni nate per le ambizioni poltronistco-affaristiche di un paio di furbastri e mentitori seriali; e un movimento alla ricerca della verginità perduta, che tenta di ritrovare la propria ambizione anticastale dopo avere invece venduto l’anima, da subito e senza grande imbarazzo, alle sirene del potere e al loro abbraccio. O ai partiti di casa nostra, tutti alle prese con un tremendo (e ovviamente ignorato) deficit di qualità della loro classe dirigente, che rende impraticabile una riflessione identitaria di minimo momento, difettando addirittura la percezione stessa dell’importanza di tale riflessione. Guai a chiedere, a costoro, quali siano i principi ideali che li guidano, il loro progetto di società; non capirebbero la domanda, e non capendola ti darebbero qualche lezione da supermercato a colpi di "pragmatismo", di appelli all’"ascolto" della gente e di qualche maldestra capriola argomentativa, di slogan elettorali da bacioperugina. Ed eccoli, tutti, a rincorrere i mutevoli umori della gente, come se lo scopo della politica fosse quello di esaurire la propria dinamica nel veicolare sic et simpliciter tali umori, e non di riflettere su di essi con l’aiuto di un patrimonio valoriale, e da questa riflessione elaborare una visione del mondo e del futuro. Non solo ascoltare, ma soprattutto farsi ascoltare: questo dovrebbe essere lo scopo principe della politica, accanto a quello di mettere in pratica queste visioni e di tutelare la propria identità profonda. Siamo sempre lì: chiedere lumi ad altri, in particolare alla pseudo-maggioranza che li elegge e vota le loro "proposte", è ben più facile che non elaborare un progetto, agire con coraggio per difenderlo, anche accettare l’eventualità di una sconfitta elettorale.

E poi, le idee (e l’ideologia) richiedono non solo banale cervello e meno ovvia intelligenza delle cose, ma anche impegno, sforzo, applicazione, studio; impongono competenza e autorità autentiche. E chi ne ha voglia, e chi ne sente ormai l’esigenza, in un mondo in cui le parole di un costituzionalista o di un filosofo contano meno di un tweet di un carneade da tastiera, o di un lemma in Wikipedia?

La coscienza della propria inattualità può avere qualcosa a che fare con la frustrazione, la nostalgia: il tempo che passa, lo specchietto retrovisore della memoria che si accampa all’orizzonte, nascondendo quello che resta del viaggio. Ma l’inattualità della riscoperta dell’ideologia potrebbe anche diventare veicolo per un cambiamento di mentalità e di approccio, recuperando e vivificando il ruolo delle idee alte.

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