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Di pacifismo e tanto altro

È durato poco il mio servizio militare, solo un giorno e mezzo alla caserma di Tesserete – perché procurai tali guai disciplinari, sufficienti per farmi licenziare e più tardi giudicare non idoneo dalla commissione sanitaria – fine anni Sessanta quando non c’era ancora l’opzione della protezione civile. Il mio scopo era di farmi buttar fuori, tra il dileggio di tutti i coetanei ben educati alla obbedienza civile. D’altronde, sono figlio di un berlinese che nel 1939 disertò l’ordine di marcia della Wehrmacht nazista.

Noi produciamo benessere a testa bassa, formati e sollecitati per un’economia che galleggia su un mare di contraddizioni da che le guerre economiche sono diventate quotidianità. Se poi queste guerre diventano guerre vere, guerre con le armi, il passaggio è più logico-meccanico che altro e la competizione diventa luciferina. Fare meglio viene inteso nel senso comune l’essere più utili a sé stessi, non da ultimo perché il moralista Adam Smith ha teorizzato che così facendo si aumenta il bene collettivo. Migliorare la convivenza è sulla bocca di tutti. Ma se ciò avvenisse, calerebbe la necessità del diritto per le relazioni interpersonali, calerebbe anche la sorveglianza della sicurezza internazionale per garantire la non belligeranza fra gli Stati. Non c’è differenza di come si muovono gli individui e gli Stati. Ma individui e Stati sono in altre faccende e in infinite contraddizioni: è noto che i popoli sono contrari alla guerra e che nel contempo sostengono il proprio esercito di Stato.

La pace è un valore sempre, per cui è sempre una buona idea. Agli occidentali europei aveva parlato Kant concludendo che un’intesa razionale per la convivenza pacifica è un fine da perseguire. La pace fra i popoli è stata nell’agenda della Società delle Nazioni dopo il primo conflitto mondiale, a seguire nell’agenda dell’Onu dopo il secondo conflitto nel 1945. Ora il pontefice di centrosinistra Bergoglio – definito da Zygmunt Bauman "figura pubblica di autorità planetaria" – sembra allontanarsi dal concetto di "guerra giusta". Chi vuole la pace, fa in modo che questa acquisti valenza collettiva; chi non ci crede, crede solo sempre nella deterrenza delle armi. La pace è certo un tabù sul piano della prassi, ossia dell’impegno politico costante volto all’ideazione di soluzioni diplomatiche, volto alla possibile riforma del Consiglio di Sicurezza. Utopie? Utopia è il non-essere-ancora che può essere pensato e che dunque può essere realizzato. Utopia nella realtà è una nuova topia che il futuro vede instaurarsi al posto della vecchia topia.

Bisogna ammettere che per noi occidentali la cosa nel dialogo mondiale è complicata: primo, perché tendiamo a sottovalutare le interpretazioni diverse che culture di altri continenti portano intorno a questa tematica; secondo, pesa ancora non poco il fatto storico che i conflitti mondiali del Novecento sono sorti dall’antagonismo fra i nazionalismi occidentali. Nel comprendere dobbiamo fare la nostra parte. La filosofa Donatella Di Cesare – che è presente nella discussione sulla guerra in corso non senza ostruzioni e che ha già vissuto a Roma con accanto la scorta di polizia dello Stato italiano – scrive: "Il procedere della comprensione si compie sempre in un adesso e sempre in nuove parole che interpretano quelle in cui, pur essendoci stata comprensione, si è scoperto nondimeno che qualcosa è divenuto incomprensibile" (Utopia del comprendere, da Babele ad Auschwitz).

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