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Fermiamo l’attacco delle élites urbane

(Ti-Press)

Con questo contributo non mi occuperò di economia, bensì di un tema che mi sta molto a cuore e che allo stesso tempo mi preoccupa. Mi riferisco al territorio rurale, quello delle nostre valli e delle zone più discoste per le quali intravedo un futuro caratterizzato da molte incognite. Chi, come me, queste zone le frequenta regolarmente, non avrà potuto fare a meno di constatare una tendenza costante e apparentemente irreversibile verso un impoverimento della dimensione umana, che si manifesta in particolare tramite l’abbandono di attività agricole e di quelle legate all’allevamento. Eppure, nonostante le avversità di un territorio spesso aspro e poco accogliente, nei secoli l’essere umano ha saputo mantenere e modellare il paesaggio alpino, assicurando con buon senso ed equilibrio la propria sussistenza, ma anche una ricchezza e una varietà di questo stesso paesaggio. Come se tutti questi sforzi e sacrifici non fossero serviti a nulla, ecco che oggi si fa strada da diversi anni un fenomeno ispirato a quella che non esito a definire una anti-cultura ambientalista, che vorrebbe esaltare il concetto di "wilderness" – ovvero di un ritorno al naturale in forme estreme – dove gli animali selvatici (in primis i cosiddetti grandi predatori come lupi, orsi ecc.) possano proliferare in modo incontrollato, costringendo di fatto chi in questi territori vive e lavora a ritirarsi progressivamente. A ben guardare, di questa visione se ne fanno interpreti soprattutto i rappresentanti delle cosiddette élites urbane, coloro che dalle grandi città in cui godono di tutti i comfort vorrebbero imporre il loro di modello di fruizione della natura, fatto di sola contemplazione e sciocco buonismo, magari giusto per poter disporre di un territorio apparentemente intatto per trascorrere qualche weekend o alcuni giorni di vacanza lontani dalla frenesia dei centri urbani (emblematico a questo riguardo è stato il dibattito e l’esito della votazione sulla revisione della legge sulla caccia). Si tratta, a ben guardare, di una forma di arroganza, intrisa di una malcelata superiorità intellettuale che ricorda varie forme di colonizzazione a cui abbiamo assistito nel corso della storia. Non è mia intenzione alimentare la contrapposizione o il fossato fra le zone urbane e quelle periferiche ma non posso nemmeno evitare di denunciare un fenomeno che potrebbe avere conseguenze deleterie per le nostre valli a livello naturalistico, ma anche per la popolazione che lì ha scelto di vivere e magari anche di lavorare, contribuendo fra l’altro a salvaguardare il paesaggio e quella biodiversità che le associazioni ambientaliste invocano a ogni occasione. Per evitare una deriva che potrebbe avere conseguenze deleterie per la società e per gli equilibri su cui si è sempre fondato il nostro Paese, sarebbe davvero auspicabile che il popolo svizzero (e il riferimento va soprattutto agli abitanti delle zone urbane), ritrovi quel sentimento di rispetto e solidarietà verso coloro che godono di condizioni meno favorevoli. Il rischio concreto, ed è questa la tendenza in atto, è che le valli e le zone più discoste diventino oasi protette e intatte a beneficio esclusivo degli abitanti delle aree urbane, ma prive di vita e quindi senza prospettive né futuro. È davvero questo che vogliamo?

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