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Cosa avrebbe pensato Trotsky dell’abolizione dei livelli?

Leon Trotsky, 1879-1940

È azzardato formulare ipotesi su che cosa avrebbe pensato Lev Trotsky del controverso progetto di abolizione dei livelli A e B nella scuola media ticinese; magari, in occasione del suo incontro a Città del Messico col filosofo dell’educazione John Dewey, avrebbe potuto chiedergli ragguagli in proposito. Comunque, al di là delle battute, non è facile passare dalla grande storia della sinistra novecentesca alla cronaca minuta del Gran Consiglio: lo ha fatto Orazio Martinetti con notevole maestria (Sinistra e sinistre, ripreso anche qui da "laRegione Ticino"), prendendo spunto anche dal discusso episodio che ha visto il Movimento per il socialismo (MpS), di ispirazione trotzkista, contribuire in modo decisivo ad affondare la proposta del ministro socialista Manuele Bertoli sul superamento della distinzione fra corsi A e B. Un possibile, molto tenue, legame logico fra i due piani potrebbe essere, nella circostanza, il concetto di settarismo, di cui i lontani discepoli del grande rivoluzionario russo sono stati spesso accusati, MpS compreso. Va comunque detto che questo vizio non è appannaggio esclusivo di nessun gruppo della sinistra in particolare e che l’accusa è stata spesso usata semplicemente per denigrare minoranze dissidenti. In ciò Stalin era un esperto.

La caratteristica peculiare del settarismo non è tanto il rifiuto del confronto ideologico, quanto del compromesso pratico. Il contrasto ideologico può essere superato solo se ne nasce una verità superiore (miracoli della dialettica, che spesso non si realizzano); il compromesso richiede, più modestamente, che le parti, pur in assenza di una sintesi e nonostante il permanere delle divergenze, accettino, nel nome della collaborazione magari in vista di scopi superiori, di adottare soluzioni che non rispecchiano pienamente il loro punto di vista: ad esempio, di sostenere una sperimentazione didattica pur se giudicata non del tutto soddisfacente, tentando così di risolvere un problema ampiamente riconosciuto e di contrastare un’offensiva di destra nella politica scolastica. Il compromesso è parte della vita e della politica. Non si vuole scendere a compromessi (non potendo "ascendere" a sintesi) quando si ritiene, o si fa finta di ritenere, che siano in gioco "valori non negoziabili", per riprendere un’espressione utilizzata dalla parte più conservatrice del mondo cattolico riguardo a certe questioni politiche eticamente controverse (suicidio assistito, eutanasia ecc.). Qualcosa di religioso, fra il profetico e il fanatico, c’è sempre nell’atteggiamento settario: "fiat iustitia et pereat mundus", "chi non è con me è contro di me". Nella mente del settario le identità si fanno rigide: ad esempio essere all’opposizione, che di per sé non è un’ideologia ma una contingenza elettorale e istituzionale, diventa una condizione ontologica, una modalità di esistenza, come sembra pensare il coordinatore dell’MpS Giuseppe Sergi (Sinistre, politica, elezioni, "La Regione", 11-02-22), che renderebbe impossibile il dialogo e la collaborazione con la sinistra di governo: o di qua, o di là. Per nobilitare la faccenda, potremmo richiamare la distinzione, proposta da Max Weber, fra etica della convinzione ed etica della responsabilità. Il settarismo, dunque, può essere un aspetto spiacevole dell’idealismo: i pragmatici, gli affaristi, gli opportunisti, si mettono più facilmente d’accordo. Ma esso può anche trasformarsi in un altro tipo di opportunismo che, come il populismo, sfrutta gli ampi margini di scontento nei confronti dei decisori politici; oppure è semplicemente un modo per mettere in difficoltà il rivale di turno.

Viviamo in un’epoca disorganica, per riprendere un’espressione di Saint-Simon, in cui non vi sono solidi paradigmi dominanti (persino il "pensiero unico" neoliberista sembra essere almeno un po’ in sofferenza: il pensiero neoliberista, non i ricchi che ne hanno profittato), singoli e gruppi seguono la propria strada, a volte vivono in bolle, parlano solo con chi la pensa come loro (una dinamica rafforzata da Internet) e denigrano chi la pensa diversamente, si concentrano su di un problema perdendo la visione d’assieme. È un po’ quello che succede quando dobbiamo orientarci nello spazio: non usiamo più le grandi mappe in formato cartaceo, in cui il particolare era sempre inserito in un quadro generale stabile, ma le piantine che appaiono sui nostri schermi digitali, dove, se ci si concentra su un particolare (con la funzione zoom), il generale scompare, e viceversa. Epoca massimamente favorevole al settarismo, la nostra, come alla dispersione, al pulviscolo partitico; e al personalismo, ovviamente, mentre di veri leader non se ne vedono.

Pure per la sinistra è disorganico il nostro tempo, perché da un pezzo si è chiuso quello che Ralf Dahrendorf ha chiamato "il secolo socialdemocratico": presenza attiva dei poteri pubblici in economia, fiscalità fortemente progressiva, stato sociale, forte potere sindacale eccetera. È stato un assetto politico che ha reso possibile la gestione democratica di una nuova fase dello sviluppo capitalistico, seguita alla crisi del 1929 e alla devastante guerra mondiale, e l’alternativa occidentale al "socialismo reale". Questo periodo ha anche favorito la progressiva integrazione degli antagonismi di classe nel quadro del capitalismo consumista, un fenomeno oggetto di radicale critica, in particolare a partire dalla fine degli anni Sessanta, da parte della "nuova sinistra". Chi scrive non ha né lo spazio, né soprattutto la competenza per analizzare seriamente le ragioni di questa profonda trasformazione post-socialdemocratica, che ha visto intrecciarsi processi oggettivi (post-fordismo, globalizzazione, innovazione tecnologica ecc.) e decisioni politiche (liberalizzazioni, privatizzazioni, riduzioni fiscali a vantaggio dei ricchi, politiche di austerità ecc.) in un rincorrersi fra economia e politica che ha coinvolto anche grandi forze della sinistra, le quali non hanno creduto di poter o dover contrastare frontalmente queste tendenze, ma sperato di poter almeno condizionare la nuova fase. In realtà, essa è andata avanti per conto suo e le ha messe alle corde: una condizione da cui faticano a uscire, orfane sia della terza via di Blair, sia del ritorno alle origini di Corbyn.

La crisi finanziaria scoppiata nel 2008, prima, e la pandemia, poi, ci lasciano un panorama di difficile decifrazione. La sinistra dei paesi democratici si trova di fronte a sfide enormi: quale atteggiamento assumere nei confronti del capitalismo globalizzato, al di là dell’alternativa secca fra neoliberismo e anticapitalismo? Come affrontare una transizione ecologica che, se mal gestita, potrebbe avere costi sociali molto alti o, ancora peggio, non andare in porto (la crisi ucraina ha già reso "tutti pazzi per il gas")? Come avviare subito un forte contrasto alle crescenti diseguaglianze sociali, inaccettabili in sé e vera fucina di un rancore foriero di sbocchi di destra e autoritari? Come collocarsi nel confronto fra Occidente a guida americana, da un lato, e Russia e Cina? Nel caso svizzero, si aggiunge anche la questione dei rapporti del nostro paese con l’Europa.

Nessuno sa come andranno per la sinistra e nella sinistra ticinese le prossime elezioni cantonali. Credo però che chiunque abbia a cuore le sorti politiche della parte progressista del paese dovrebbe guardare con favore a una nuova convergenza fra socialisti e verdi. Non so quanto realistica sia la possibilità del successo, in questo quadro, di un candidato o una candidata ecologista al Consiglio di Stato, a danno del Ps, ma, in tal caso, si tratterebbe di un riflesso del generale affermarsi di una cultura "post-materiale" che non è quella in cui il socialismo è nato e si è sviluppato. Io credo, però, che i veri "post-materialisti" siano coloro che, come Marx, sanno quanto i condizionamenti materiali contino sempre nella vita di singoli e società, e quanto sia importante, per essere più liberi dal loro potere, affrontarli molto seriamente. Se possibile, bisognerebbe, ad esempio, evitare che si consolidasse, nelle nostre società, la spaccatura fra un mondo cittadino, individualista, incentrato su valori post-materiali, terziarizzato, ben scolarizzato, relativamente benestante, culturalmente aperto e ambientalista, e un mondo di periferia, provincia e campagna, più direttamente coinvolto nella produzione materiale, tendenzialmente più fragile e povero, meno sensibile ai problemi ambientali, ostile agli immigrati, spaventato e arrabbiato. Temo anche che la cosiddetta città-Ticino, che ha più l’aria di una grande periferia-Ticino, rischierebbe di stare dalla seconda parte. Tocca dunque alla sinistra storica essere in prima linea nello sforzo di unire le nuove battaglie per l’ambiente a quelle per libertà, eguaglianza e giustizia sociale.

In questa prospettiva, non si tratta di scegliere in astratto fra istituzioni e piazza (oggi anche digitale), fra governo e opposizione, ma di individuare gli obiettivi, le sedi, gli alleati, le strategie e le persone di volta in volta adeguati. Si pensi, ad esempio, a una figura come Elly Schlein, cresciuta in Ticino, già parlamentare europea e oggi vicepresidente della regione Emilia-Romagna, politica inserita nelle istituzioni, ma anche impegnata nella società civile, nel nome della coniugazione di giustizia sociale e ambientalismo.

Questo contenuto è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog naufraghi.ch

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