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Due popoli e noi

(Ti-Press)

Correva l’anno 1895 quando Gustave Le Bon scrisse il suo saggio più famoso: “Psicologia delle folle” la cui attualità è per certi versi disarmante. Ogni civiltà prende origine da un esiguo numero d’idee fondamentali che raramente si rinnovano. Un popolo è un organismo creato dal passato. E, come tutti gli organismi, non può modificarsi se non attraverso lente accumulazioni ereditarie. Suo compito, tuttavia, è anche quello di modificare poco a poco le istituzioni del passato, adattandole alle circostanze della contemporaneità. Senza anima nazionale, non è possibile alcuna civiltà.

Consapevole che i raffronti sono difficili e pericolosi non approfondendo tutte le differenze e controindicazioni, in due recentissimi viaggi mi è capitato di restare colpito dal sentimento che muove certe nazioni più di altre.

Il primo Paese è l’Ungheria, governata oggi da un leader populista ampiamente criticato: mi trovavo a Budapest proprio il giorno (23 ottobre) in cui ricorreva l’anniversario della seppur breve rivoluzione antisovietica ungherese del 1956. Orbene tutta la città era chiusa e un corteo di centinaia di migliaia di persone venute da tutto il Paese percorreva i chilometrici viali principali con infinite bandiere e musiche tradizionali. Forse una nazione (come molte altre) che è stata dominata da terzi: austriaci, turchi, sovietici prima di liberarsi non molti decenni orsono ha più necessità di altri Paesi di rivivere l’orgoglio di ciò che è e ha conquistato.

Il secondo sono gli Emirati Arabi Uniti, un Paese nato 50 anni fa nel cui emozionante padiglione all’Expo Dubai si trova la prova e la fierezza del proprio slogan: una terra di sognatori che fanno (#The land of dreamers who do). E non si può dire che non abbiano realizzato se si pensa che, seppur col petrolio, sono partiti da una terra desertica e popolazioni seminomadi.

E allora mi chiedo: noi svizzeri, nati come Willensnation, che non siamo più una giovane nazione, pur col nostro primo di agosto, sentiamo ancora quella fierezza per il nostro passato? Abbiamo una visione, una utopia, un sogno comune che ci scaldi e sproni proiettandoci verso un futuro bene comune? O ci siamo adagiati nel benessere e nella nostra tanto declamata quanto malata democrazia, superati magari dall’individualismo, dalle stanze dei social media che fanno crescere tutto (rabbia, complottismi, divisioni grandi e piccole) tranne che un senso e una direzione comune? Credo infatti che la nostra democrazia sia malata non in quanto istituzione ma perché noi abbiamo spesso rinunciato a meritarcela e a usarla come si deve: con rispetto, con senso civico, con voglia d’informarci ed essere partecipi attivi. Essa è bistrattata in primis e invero proprio da chi vi si richiama di continuo per dire che il popolo è sovrano. Ma per convincere le folle, bisogna prima di tutto conoscere i sentimenti che le animano, fingere di condividerli (i falsi democratici), poi tentare di modificarli, provocando in esse, per mezzo di facili associazioni d’idee, alcune immagini suggestive, spesso fabbricando un nemico che è causa dei nostri mali (veri populisti). Ma la democrazia non è nata come luogo in cui riversare e fomentare rabbia e risentimento. Si sa: le folle raramente seguono la ragione. A far procedere l’umanità sulle vie della civiltà sono stati piuttosto l’ardore e l’audacia delle sue utopie che hanno generato e diffuso sentimenti quali l’onore, la fede religiosa, l’amore per la propria patria. Abbiamo noi svizzeri e ticinesi un sogno comune da… fare?

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