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Avanza la scienza, arretra la riflessione

Dire oggi che siamo determinati in tutto e per tutto dal sistema scientifico-tecnico è una banalità. Chi vorrebbe cimentarsi nel contraddire questa asserzione? Nel percorso antropologico, dagli inizi degli istinti quasi assenti alla produzione sofisticatissima degli strumenti-protesi del nostro organismo, la cosa che stupisce ancora non è più la trasformazione della capacità di agire nell’ambiente naturale e sociale, bensì la velocità del continuo affinamento dei mezzi. Qualcuno − in un angolo per la verità ristretto − si chiede se gli stessi mezzi si siano elevati al rango di fini. Malgrado resista un nesso tra mezzo e fine, questa atmosfera di relazione sembra essere stata ceduta nelle mani dei soli scienziati e tecnici.

Il filosofo Fulvio Papi non disarma a fronte della realtà. Cosciente del “dominio del sapere tecnico” e della sua “forma aggressiva e totalizzante di pensiero”, vede una trasformazione nella filosofia che, dopo aver ceduto spazio del sapere alla conoscenza scientifica, ha moltiplicato le occasioni di riflessività in moltissimi ambiti del mondo vitale, dove ripropone “l’autonomia del pensiero come forma caratteristica di un fare determinato”. Come dire: il nostro fare è determinato in un certo senso, ma la riflessione investe problematiche che tendono a una loro autonomia all’interno del gioco puramente scientifico-tecnico. Verrebbe da dire, con qualche azzardo, che la riflessione filosofica si democratizza. L’uomo nell’attuale contingenza deve pur porsi delle domande, non da ultimo inerenti alla questione mezzi-fini.

Siamo distanti dall’alone dei secoli passati quando la filosofia voleva riferirsi a un suo fondamento. Lo stesso Papi, con Alain Badiou, sostiene che la filosofia non possa e non debba produrre alcuna verità propria. Essa infatti è semplicemente un’intesa, un compromesso, una sorta di verità solo temporanea che nasce dal lavoro di riflessione plurale, cioè emessa da diversi interlocutori. La definizione di filosofia così ritagliata si applica a puntino sul perimetro della politica, essendo “un compromesso che nasce nel lavoro stesso della riflessione, capace del proprio esercizio in una pluralità di modi che chiedono solo un’interiore coerenza del discorso per raggiungere il risultato”. Sarebbe mostruoso se la politica non convocasse per eccellenza e in continuazione l’atto del pensare!

Tuttavia, appunto perché le soggettività non sono univoche, una parte del pensiero contemporaneo si esprime nella critica antirazionalista che problematizza il nostro contesto sociale altamente tecnicizzato, il quale è sorretto da un discorso sul divenire reale inarrestabile, sorretto a sua volta da una ragione autosufficiente. Una di queste voci è quella di Umberto Galimberti, già ispirato nelle sue ricerche da un Heidegger ossessionato dal problema dell’essere e dalla invadenza della tecnica, che indica in modo perentorio il cedimento del soggetto storico, dell’uomo, davanti al progredire del soggetto sistemico, rappresentato dai dispositivi tecnici. Intorno al rapporto tra potere e democrazia (che Emanuele Severino aveva incluso nella disputa fra sistemi e sistemi, sostenendo come ormai evidente il primato di sistema portato dalla tecnica) in Galimberti appare un conglomerato di varie forze di potere che si compensano e contrastano nella complessità sociale. Le decisioni da prendere in democrazia sono tecniche, anche quelle economiche e pure quelle sociali e ambientali sono tecniche: dunque i politici sono “sottoposti alla costrizione oggettiva della razionalità tecnica”. Invece il vasto pubblico rimane al livello pressoché d’incompetenza di fronte alla maggior parte delle decisioni. Ovvero il cittadino medio è impreparato a capire con conoscenza necessaria gli intrecci delle problematiche (la pandemia è solo l’ultimo evento che insegna). Dice ancora Galimberti: “Viene così riconfermato, oltre all’adattamento passivo della politica alla tecnica, anche l’adattamento passivo dell’opinione pubblica alla politica”.

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