I dibattiti

Oltre il caso

Nei giorni scorsi il Consiglio della Magistratura ha ricordato che i giudici, quando spiegano in aula le loro decisioni, devono limitarsi allo stretto giuridicamente necessario. A prescindere dal caso concreto, fa riflettere che si sia dovuto precisarlo ma, soprattutto, è l’occasione per ricordare lo scenario complessivo nel quale il tema si inserisce. Provo, al proposito, descrivere alcune situazioni, sottolineando subito che interagiscono e si alimentano vicendevolmente. Il primo tema è che i processi penali, per fortuna, sono pubblici da quasi due secoli ma, ormai, è sostanzialmente diventata tale anche la fase che li precede, l’indagine. La riservatezza dell’istruttoria, nota bene prescritta dalla legge, non è mai stata assoluta ma la sua violazione è ora la regola piuttosto che l’eccezione. Le inchieste penali sono oggi, di fatto, pubbliche o, per meglio dire, tali sono ogni volta che qualcuno abbia un interesse a diffondere questa o quella la notizia, a dire o far dire la sua. Il danno e i pericoli derivanti da una tale situazione sono evidenti. Il secondo elemento da ricordare è che i media, complessivamente, ritengono oggi di rappresentare, nelle procedure, una nuova “parte”, l’opinione pubblica, di cui fanno valere le presunte attese. Che il compito di difendere gli interessi pubblici spetti, in questo ambito, solo a un’autorità che, non a caso, si chiama  ministero pubblico, sembra ormai secondario, con tutte le conseguenze del caso ma non è questo che qui interessa. Se le procedure sono diventate pubbliche e il pubblico ne è diventato una “parte”, la giustizia e i suoi vari addetti ai lavori, ed è il terzo aspetto da evidenziare, sono ormai inseriti nel flusso della comunicazione continua. La comunicazione giudiziaria non definisce le regole comunicative ma subisce o alimenta, consapevolmente o meno, quelle dei media e delle reti sociali. Chiunque segua un procedimento, sui  canali tradizionali o nei social, capisce di cosa sto parlando. Da ultimo, un dibattito politico vieppiù polarizzato si focalizza spesso sul diritto penale e le questioni classiche della pericolosità, prevenzione e sanzione diventano politicamente identitarie. Non a caso le ultime modifiche di rilievo del nostro codice  (in materia di espulsioni, internamenti, pedofilia, prescrizione) sono tutte nate da iniziative popolari. Al contempo, la nomina stessa dei magistrati è oggetto di ricorrenti controversie pubbliche. Tanto che la Svizzera intera andrà presto al voto sull’iniziativa che propone di scegliere i giudici per sorteggio. Il rischio che questa complessiva politicizzazione tenda a trasferirsi dal piano legislativo a quello delle singole procedure è palese

Ma se questo è il quadro, e se la politicizzazione e la comunicazione sono ormai i riconosciuti dominatori della vita sociale, economica e culturale, la domanda è semplice: come può la giustizia restare indipendente? Un momento di serenità, accuratezza ed equidistanza in un contesto sociale instabile e che, peraltro, proprio alla giustizia rivolge frequentemente richieste improprie o strumentali? Un così rilevante tema merita ben altro spazio ma almeno una cosa mi pare chiara. Soltanto se tutti coloro che partecipano alla vita giudiziaria (in primo luogo avvocati, procuratori, giudici, polizia) si rendono conto dei pericoli è, forse, possibile salvare il salvabile. Se ognuno di costoro pensa, oltre che al singolo caso e alle sue necessità o intenzioni soggettive, alle implicazioni “sistemiche” del suo agire comunicativo, restare ottimisti non è ingenuo. Questo è un invito non a stare sempre zitti, ma a soppesare ogni volta tutte le conseguenze del proprio dire. Forse mi illudo ma voglio pensare che, come dicono gli inglesi, “one man can make the difference”, un singolo può fare la differenza: non da solo, ma se ognuno fa il suo sì. All’opposto, mi pare purtroppo palese che, continuando come nulla fosse salvo magari indignarsi o protestare a geometria variabile o quando si è vittima di questa o quella situazione, si corre verso quella che qualcuno ha già definito come la “socializzazione” del fatto giudiziario. Tra gogne digitali sempre pronte, polemiche che attendono solo l’innesco, narcisismi e vittimismi in servizio permanente sarebbe la fine, in sostanza, dell’indipendenza della giustizia, ergo della sua stessa legittimazione.

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