I dibattiti

Rete Due, che ne direbbe Franco Liri?

Lo storico Danilo Baratti ricorda l’autore e poi dirigente della Rsi Bixio Candolfi e le trasformazioni del servizio pubblico

Archivio Ti-Press

Chissà cosa avrà pensato il calciatore Luther Blisset, celebre campione degli errori sotto porta, quando negli anni Novanta hanno iniziato a utilizzare il suo nome come pseudonimo collettivo? E avrà letto il bellissimo romanzo storico ‘Q’, uscito col suo nome nel 1999? Nel caso di Franco Liri, nome usato recentemente sul ‘laRegione’ (12 gennaio e 4 febbraio) per interventi sulla politica culturale della Rsi e della Ssr, la risposta è più facile: non se n’è accorto perché, per usare un eufemismo classico, non è più tra noi. Per le generazioni più giovani è forse opportuno ricordare che Franco Liri era lo pseudonimo di Bixio Candolfi, autore e regista della celebre trasmissione radiofonica ‘La Costa dei Barbari’ dedicata al buon uso della lingua italiana. Franco Liri era mio suocero. Siccome ero intervenuto anch’io, il 29 dicembre, nel dibattito sulla sorte di Rete Due e sull’idea del “fare cultura” coltivata in certi ambienti radiotelevisivi, quando è apparso il primo articolo del redivivo Franco Liri un paio di persone mi hanno telefonato immaginando che fossi io.

No, non sono io il nuovo Franco Liri: mi riconosco pienamente nelle analisi e nelle preoccupazioni che espone ma non seguo così attentamente quanto accade all’interno dell’ente, non sarei in grado di scrivere interventi altrettanto precisi e illuminanti.

La situazione mi spinge però a dire qualcosa sulla relazione tra ciò che il nuovo Franco Liri scrive e ciò che il Franco Liri “originale” ha vissuto e rappresentato nell’ente radiotelevisivo, prima come collaboratore ai programmi culturali della radio, poi come capo del dipartimento cultura della Tsi e infine come direttore dei programmi. Posso farlo senza troppi sforzi di documentazione perché me ne sono occupato intensamente poco più di un anno fa, preparando la mostra «Da Comologno al mondo: Bixio Candolfi senza confini» presentata alla Biblioteca cantonale di Lugano tra novembre 2019 e gennaio 2020, dedicata non solo alla persona ma anche a quattro decenni (gloriosi) della storia della Rsi. Potrei partire da un pannello dedicato all’ultima tappa in cui si leggevano queste parole: «Quanto al Candolfi dirigente (...) sarà anche solo per lo spirito del tempo, ma con lui è finita un’epoca: “La Televisione, per lui, era chi ci lavorava, era la creatività, era il rapporto diretto”, si legge sul ‘Giornale del Popolo’ del 26 novembre 1999. E si ricorda la Tsi come una “famiglia allargata, grazie anche al suo carisma e alla spontaneità e agli entusiasmi che riusciva ad accendere”. Poi è venuta l’azienda». E qui in fondo c’è già molto del problema che ci preoccupa. Per entrare più nel merito, riprendo anche un passaggio dell’intervento che avevo fatto la sera dell’inaugurazione (e che si può leggere, con gli altri, su ‘Cartevive’ n. 60): “Il nome di Bixio Candolfi, che pure è morto nemmeno un anno fa, richiama poi un’epoca che è lontana non solo per gli anni trascorsi: il mondo che l’ha visto attivo per una quarantina d’anni – quello radiotelevisivo – è cambiato profondamente, e credo malamente, trasformandosi sempre più da stimolante fucina creativa in azienda produttiva poco attenta alle relazioni interpersonali. E si è passati sempre più – so di semplificare rozzamente, ma è per illustrare una tendenza – dall’intrattenimento formativo del cittadino alla soddisfazione del cliente. Con questo non voglio dire che il cambiamento abbia necessariamente a che fare con il pensionamento di Bixio Candolfi: ben altre dinamiche, di portata planetaria e non legate alle singole persone, hanno modificato in questi trentacinque anni la società e con essa l’ente radiotelevisivo. Dinamiche già ben percepibili nel 1984, quando Candolfi è andato in pensione. Possiamo almeno supporre che Candolfi avrebbe offerto un po’ più di resistenza”. Quanta e quale resistenza, in realtà, non ha senso chiederselo: il passato non si inventa.

Se torno su queste cose, citando un po’ sfacciatamente me stesso, non è solo per rilevare le sintonie tra i due Franco Liri ma per sottolineare come ciò che sta succedendo, e che ci appare come una deprecabile rottura, vada letto anche nel segno di una continuità. Con le decisioni che (per quanto ci è dato di sapere) si stanno prendendo oggi in relazione al parlato culturale alla radio, assistiamo a un’ulteriore tappa di una profonda trasformazione che è sì legata all’evoluzione degli strumenti di comunicazione e delle abitudini di fruizione, ma è determinata in primo luogo dal processo di aziendalizzazione di un ente di servizio pubblico. Un processo che ha investito, in forme ovviamente molto diverse, anche altri rami del servizio pubblico quali la posta o le ferrovie, come ricordava qui Christian Marazzi (5 gennaio). Tra i denominatori comuni sta senz’altro un approccio sempre più quantitativo, orientato verso i servizi apparentemente più redditizi. In questo caso il tornaconto quantitativo sta da un lato nella riduzione di posti di lavoro – vedi i dati citati dal novello Liri a proposito della Srf – e dall’altro in un ampliamento (tutto ipotetico) dell’utenza grazie a uno spostamento dell’offerta su piattaforme digitali, con il conseguente abbandono, per quel che riguarda l’approfondimento culturale, di buona parte dell’offerta lineare (e del suo pubblico). Rileggendo nell’insieme i vari interventi critici sul progetto in atto (io mi sono tenuto le pagine di giornale, ma ho visto che sul sito di Coscienza svizzera – coscienzasvizzera.ch – si trova tutto quanto è stato scritto e detto in merito, sotto il titolo “la cultura alla Rsi”) emergono chiaramente i pericoli di questo abbandono. Certamente il vecchio Liri avrebbe seguito con interesse e sollievo l’insieme di reazioni suscitate dal progetto Lyra, sentendosi parte in causa come cittadino, come utente radiotelevisivo, come ex direttore di un ente allora impegnato a soddisfare pienamente il mandato di servizio pubblico, pur sapendo adeguare la programmazione culturale radiotelevisiva in relazione all’evoluzione tecnologica e ai cambiamenti sociali.

Altri tempi, in tutti i sensi. E forse non sarà inutile dire qui, per illuminare questi nostri tempi, che in occasione dell’inaugurazione della mostra dedicata a Franco Liri (e all’ente in cui ha lavorato) non c’era nessuno a rappresentare la Rsi, men che meno il direttore, né c’è stato un servizietto al ‘Quotidiano’ fino a pochi giorni dalla chiusura (7 gennaio 2020), dopo che una collaboratrice della radio ha segnalato a un collega lo scandaloso silenzio. Scandaloso e, verrebbe quasi da dire, coerente. E coerente appare anche l’uso dello pseudonimo Franco Liri da parte della persona che ci sta allarmando per quanto succede alla Rsi: un nome scelto per contrapposizione – culturale, etica, politica – e non per assonanza con Lyra.

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