I dibattiti

Rete Due, quel 'parlato' da difendere

Valore inestimabile contro le pericolose scorciatoie con cui l’odierna società dell’immediatezza spettacolarizza e afferma perentoriamente se stessa

Fabio Merlini (Ti-Press)
8 gennaio 2021
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Fra le incongruenze che caratterizzano la nostra società vi è anche quella di far precedere le risposte alle domande. Quando l’accelerazione diventa uno fra i più rilevanti principi di creazione del valore, non deve poi sorprendere se l’azione tende a soppiantare la riflessione. Diamo per scontato che la realtà sociale sotto i nostri occhi, per il solo fatto di essere in atto, sia anche legittima. Così ciò a cui siamo chiamati è una incessante operatività, la cui performatività è valutata in base alla sua efficacia a breve termine. Il che significa però un allineamento devastante all’ordine del reale e alle sue logiche. Rispetto alle quali arriviamo sempre e solo dopo, con il compito di assecondarle, quindi di governarle e infine di incrementarle, rafforzando il quadro d’assieme. Dico “devastante”, perché quando è prevalentemente questo il tipo di relazione con il mondo che ci interpella, ciò che viene meno è la stessa possibilità della critica di offrire al giudizio punti di vista inediti, spiazzati e spiazzanti rispetto a ciò che si dà. È la stessa dinamica che ha coinvolto negli ultimi decenni la ricerca universitaria, soprattutto nel campo delle discipline umanistiche, mettendo al margine qualsiasi sguardo che non accetti di fare dell’empiria il principio e la fine della propria azione. Per intenderci, sguardi dalla potenza diagnostica sulla società come quello, ad esempio, di un Nietzsche appaiano del tutto delegittimati oggi. E in ogni caso, mossi da una comprensione delle cose che non troverebbe alcuno spazio nei protocolli di ricerca accreditati. Il che solleva non pochi dubbi sul senso stesso di una certa cultura della ricerca in ambito umanistico.

È molto significativo al riguardo che la riorganizzazione della Rete culturale della nostra emittente radiofonica sia stata presentata sotto l’egida della “riduzione del parlato”. Anche questo, per le ragioni dette, non dovrebbe sorprendere. Poiché rientra perfettamente nella stessa logica: togliere voce alle domande, inibire la riflessione a favore di una equivoca idea di intrattenimento. In fondo, che valore ha il parlato in ambito culturale, quando ciò che conta anche in questo campo è che tutto possa essere offerto nella forma di uno spettacolo la cui ambizione principale è in generale di presentarsi alla stregua di un evento, consumabile al pari di qualsiasi altro prodotto di mercato?  Che ciò non sia sorprendente non significa però che non debba preoccupare. Poiché qui il “parlato” non è il parlare con cui oggi confermiamo lo stato del nostro mondo, quello cioè in cui viviamo: un parlare impersonale retto per lo più dai luoghi comuni che riflettono le nostre identità private e pubbliche, così come si danno e sono richieste. È al contrario un parlare che rimette in discussione gli uni quanto le altre, che offre all’immagine di noi stessi e alla nostra comprensione del mondo ragioni per una diversa persuasione di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere; di come viviamo e di come potremmo vivere altrimenti. In un contesto che, soprattutto in ambito formativo e imprenditoriale, ha fatto del power point come stile comunicativo diffuso uno dei principali strumenti di trasmissione della conoscenza, questa dimensione del parlato deve essere difesa, quando si vuole contrapporre alla potenza ingiuntiva del punto la forza dell’argomento, alla volgarità dello slogan la pazienza della riflessione.

Quello che ci ha offerto sino ad ora Rete Due è un servizio dal valore inestimabile proprio perché in grado di contrapporre alle pericolose scorciatoie con cui l’odierna società dell’immediatezza spettacolarizza e afferma perentoriamente se stessa, un preziosissimo lavoro culturale di mediazione in grado di offrire argomenti a chi vuole capire dove si trovi, o dove sia finito. Non si tratta di un lusso, ma di una necessità. La cultura, del resto, altro non è se non proprio questo spazio in cui l’esistenza scopre di essere più di quanto sia chiamata a vivere, nella quotidianità delle sue preoccupazioni e delle sue soddisfazioni; in cui vengono messe a disposizione le parole, e più in generale le forme, per raccontarsi secondo schemi che non riflettono solo le figure di una contemporaneità orgogliosa di se stessa. È l’unico potere di cui disponiamo per provare a mantenere viva la differenza che consente di disallineare, quando sia necessario, le nostre esistenze e i nostri valori rispetto agli imperativi della realtà sociale ed economica. Capisco bene che oggi questo possa suonare anacronistico, difronte alla seduzione di un iperattivismo infiammato dal miraggio dell’eccellenza (quale?) e del profitto (per chi?). Ma non bisognerebbe dimenticare che “anacronistico” è letteralmente ciò che dimostra di sapersi posizionare contro (anas) il tempo presente (chronos) e la sua vulgata dominante, non foss’altro che per aiutarci a capire di più e meglio quanto accade attorno a noi.  Non facciamo che invocare l’importanza delle competenze, in una società dinamica e in continua trasformazione. Bene, una competenza di cui dovremmo tutti poterci impadronire per cercare di uscire dall’impasse nella quale siamo irretiti, e di cui la pandemia attuale pare essere una potente allegoria, dovrebbe proprio essere questa capacità critica di attivare uno sguardo anacronistico sul mondo circostante.

Il “parlato” che la dirigenza RSI intende sacrificare, per ridistribuirlo non si capisce bene dove e come, è una risorsa proprio in questo senso. Perché? Perché, come ogni espressione culturale autentica, offre a chi ne fruisce una riserva di significati per arricchire quel patrimonio simbolico senza il quale prendere la parola per segnalare una distanza rispetto alle evidenze, ai luoghi comuni, ai marcatori di attualità e di innovazione del proprio tempo, risulterebbe molto più complicato. Se non addirittura impossibile. Non voglio neanche lontanamente immaginare che, a monte della “riduzione del parlato”, vi sia un consapevole disegno di indebolimento della soggettività in questo senso. Ma sappiamo bene come da un’inintenzionalità possano poi scaturire effetti che fanno sistema e che mostrano, se osservati retrospettivamente, una sorprendente omogeneità nell’affermare logiche di cui nessuno è mai individualmente responsabile. Sta di fatto, che ogni qual volta sottraiamo alla vita biologica pezzi di vita simbolica operiamo un impoverimento dell’esistenza che accresce la sua disponibilità ad appiattirsi sugli idola fori del momento. Vi è infatti sempre qualcosa di entusiasmante nel mostrare di sapersi conformare al proprio presente, partecipando ai suoi processi di attualizzazione (chi non desidera infatti risultare innovativo?). Cercare invece di comprenderne le implicazioni, le conseguenze e le incongruenze è un’altra cosa. Ma per riuscire a farlo abbiamo bisogno di più e non di meno “parlato”. Soprattutto se teniamo presente che in una società dominata dalle immagini di consumo, i discorsi tendono e tenderanno sempre più a mimare, per potersi assicurare l’attenzione, questa loro stessa iconicità elementare.  È un ulteriore fattore di impoverimento. Impegniamoci nel nostro piccolo affinché ciò non diventi l’unico stile comunicativo possibile.

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